Quest’anno il Premio Tenco era dedicato al centenario della nascita di Woody Guthrie. Soltanto
il leggendario padre della canzone sociale e politica poteva ricongiungere
sullo stesso palco Luigi Grechi e Francesco De Gregori.
E’ accaduto l’altra
sera al Club Tenco, per la prima volta dai tempi del Folkstudio, quando Luigi
sognava l’America e Francesco, dietro di lui, la scopriva. Ed è la prima volta
che il fratello maggiore, durante il convegno pomeridiano intorno alla figura
di Guthrie, usa il suo vero cognome, presentandosi come Luigi Grechi De
Gregori. C’è anche Giovanna Marini che alla notizia pare rincuorata, lei che li
ha visti crescere e ha lo spirito inalterato, una schiettezza e un entusiasmo
genuini sulla scena e nella vita per cui è pronta a lanciarsi se ritrova due
vecchi amici con cui cantare e a cui risponde pure “fate un po’ come vi pare”,
se si defilano con un’argomentazione inoppugnabile: il problema di conciliare le
diverse tonalità.
Più che un cavallo di battaglia del Folkstudio, il vero colpo di scena sarebbe
stato il bis con “Il bandito e il campione”, fatto a due voci dall’autore e dal
suo primo interprete, con l’ausilio prezioso di Ambrogio Sparagna e la sua
banda, ma il mio volo mentale e di autrice radiofonica che mette in connessione
le cose si scontra a volte con un sipario già calato.
Nel rituale Dopofestival
(niente di tutto quello a cui il Tenco negli anni ci aveva abituato),
agguantiamo Grechi che ci onora della sua presenza mentre gli altri artisti lo
attendono al ristorante nel sano e meritato posto a tavola, che qui è come dire
pesto a tavola. Siamo gli unici tre giornalisti romani, “gli irriducibili”,
Pinto, Pellegrini, Pistolini, privi quest’anno della compagnia di pilastri come
Felice Liperi, Elisabetta Malantrucco, Giorgio Galleano.
Uno dei motivi della
diaspora, oltre al fatto che il Tenco è diviso tra la manifestazione sanremese
e la consegna delle “Targhe” che avverrà a Novara nei giorni dell’Immacolata e
qualcuno ha dovuto scegliere su quale trasferta puntare, è che la stampa, anche
quella che sopravviveva e lottava insieme a noi, non ha più spazio per il Tenco.
Credo, però, che alla resa delle radio non ci si debba rassegnare e che anche
il Tenco debba fare uno sforzo di comunicazione, perché a volte il lavoro nelle
redazioni culturali è vittima di meccanismi ed automatismi dove ci si desta e
ci si organizza intorno ad un’agenda dettata da chi parla e fa parlare di più,
grazie agli uffici stampa accreditati a cui lo stesso sistema dei media ha dato
un prezioso potere e sacrosanto (se usato bene): “è l’ufficio stampa,
bellezza!” dico spesso tra me e me parafrasando la celebre battuta di Bogart.
Insomma, ma non voglio dilungarmi su questo, non ci si poteva organizzare per
una bella diretta radiofonica?
Tornando
invece al Club Tenco e a quando ho intercettato Luigi Grechi al buffet per
avere conferma di quella che ritenevo la vera notizia della serata e che ho sintetizzato
nel titolo “Fratelli d’America”. “Già... – risponde Luigi, “pastore di nuvole” con aria sorpresa – forse non era mai
accaduto”. E poi sempre più convinto: “non accadeva da un bel pò“.
Non potevo trovare occasione migliore
per inaugurare questo blog: tre miti che stanno alla base delle scelte, del
lavoro e delle fantasie della mia vita: Giovanna Marini, Francesco De Gregori e
Alessandro Portelli. De Gregori che consegna il
Premio Tenco a Portelli dicendo “una cosa sola ci divide: io amo molto
Dylan, lui Springsteen. Però vuol dire che entrambi amiamo Woody Guthrie da cui
sia Dylan che Springsteen hanno attinto”. Naturalmente non si tratta della Roma e
della Lazio (altro argomento che li divide) e così Portelli, non disdegnando affatto
il menestrello di Duluth, ci tiene a precisare di essere stato il primo, nel
1966, a trasmettere Dylan alla radio in Italia. “Ed io ad ascoltarlo grazie a
Portelli” chiosa elegantemente come solo il Principe sa fare. Sempre elegantemente, De Gregori offre un condensato del suo tour con Ambrogio
Sparagna, rileggendo i suoi classici “Santa Lucia” e “San Lorenzo”, quest’ultimo inteso come il quartiere romano squartato dal
bombardamento del 19 luglio 1943 e l’affronto più brutale da parte dei
bombardieri “alleati” nei confronti della inerme popolazione civile (e quindi ulteriore
omaggio allo storico Sandro Portelli).
Alla fine della giostra musicale (quanto
me li vorrei portare a casa sul comodino in formato carillon), De Gregori,
anche qui per la prima volta, in un “ubi maior” ribaltato, lascia la scena a
Luigi Grechi, perché gli stivali da cowboy in casa li ha sempre portati lui.
C’è da fare almeno un pezzo di Woody Guthrie e Luigi ne fa due, “My land is
your land” e “Hard travelin’”, e Francesco con l’armonica a bocca e grande
riverenza ne sottolinea il legame emotivo ed esistenziale, avvicinandosi a
Luigi e al suo microfono solo nel lirico afflato finale.
Parola all’esperto,
dunque, Luigi, il primo a cantare Guthrie al Folkstudio, e quindi in Italia. Ci
assicura che quella di Dylan nel celebre locale di Cesaroni, Giancarlo
Cesaroni, non è una leggenda ma la verità. “Perché Bob venne in occasione di un
tour europeo di Pete Seeger ed era in compagnia di Susy Porco che studiava a
Perugia”. In ogni caso, dietro lo sbarco della musica americana in Italia c’era
sempre una donna. Pensiamo ad un’altra studentessa, Deborah Kooperman, per
Guccini, o alla hostess di cui racconta lo stesso Grechi che gli faceva da corriere
di vinili da importazione. “E’così che entrai in possesso di Dust Bowl Ballads
e scoprii che l’Oklahoma era un catino di sabbia perché una terribile tempesta
costrinse tutti i coltivatori ad emigrare in California. Woody era uno che come
vedeva rosso scriveva una canzone”.
C’è anche Davide Van de Sfroos, grande
cultore di Gutrhie, tanto da citarlo (a proposito di miti) insieme a Johnny
Cash, Robert Johnson e Jimi Hendrix, nel suo brano “Il camionista ghost rider”:
Sull'autostrada a Casalpusterlego c'è un gran polverone, non si vede
niente, non è nebbia non è fumo, è tutta sabbia e nel mezzo c'è un uomo, ha in
testa un cappello che sembra quasi uno straccio, ha la salopette e gli scarponi
grossi, ride un po' poi tossisce, ha terra sulla faccia e dentro ai polmoni. Questa è la traduzione dal tremezzino (detto anche
laghée), lingua che risuona nel Lago di Como. Nel suo dialetto tronco e
sanguigno, Van De Sfroos traduce “My land is your land” e un classico del folk
statunitense da tutti conosciuto per la versione degli Animals di Eric Burdon,
entrato tra i classici di Guthrie, “The house of the rising sun”.
“Le canzoni di
Woody sono sovrapponibili all’oggi in modo inquietante. – dice il cantautore
comasco. – Le cose che ha scritto non sono svanite nella sabbia, nonostante
tutte le tempeste di polvere”.
Certo, anche sentir parlare del periodo della “Grande
Depressione” ci fa pensare al clima in cui siamo sommersi negli ultimi
tempi, al quale nemmeno il Tenco è
immune, e ci fa pensare anche che la musica, proprio grazie e a partire da
Guthrie debba essere un bene comune, e come tale, tutelata.
Ero con Giovanna
Marini, nel famoso camerino di Pippo Baudo che sta subito dietro al palco, ma
senza neanche una stufetta. Giovanna si mette lo scialletto sulle gambe e
comincia a raccontare la storia dei suoi anelli, dopo avermi interrogato sui
miei. Poi mi dice, "ma lo sai che ogni volta che accompagno all’aeroporto la
donna che mi aiuta in casa penso sempre a te?" Tutti in Romania volano su Timisoara.
La nipote di Woody Guthrie è intanto sul palco per il suo set di quattro
canzoni. “Te la racconto io una storia curiosa Giovanna, lo sai che Sarah Lee Guthrie,
figlia di Arlo e nata nel '79, dodici anni dopo la morte del nonno, è sposata
con Johnny Irion che è il nipote di John Steinbeck e girano il mondo suonando insieme? “Ma tu guarda che coppia, nipoti d’arte, si
potrebbe dire”. Sì Giovanna... nipoti d’America…
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