domenica 22 settembre 2013

Tonino Zurlo e il Canto degli ulivi


La vita del cantastorie pugliese Tonino Zurlo è talmente innestata con la cultura mediterranea dell’ulivo che mi fa venire in mente il poeta indiano Rabindranath Tagore: “gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”.
Basta guardare la copertina del suo ultimo cd, “L’ulivo che canta”, per entrare nella bottega di musica e scultura dell’artista di Ostuni e sentire questa tensione all’infinito e all’indefinito.
“Gli alberi sono sculture”, dice Tonino. Assumono forme e sembianze antropomorfe, caricaturali, proprio come in cielo le nuvole.
A 67 anni, Zurlo è finalista al Premio Tenco nella categoria “Album in dialetto”, finalmente un riconoscimento per un altro grande “tramite” della cultura e dell’animo popolare del nostro Paese. Ci incontriamo ogni estate, a Mola di Bari, in occasione del tributo a Enzo Del Re. L’ultima volta mi ha detto che la musica non gli piace più, che non vuole più fare niente. Alla fine della conversazione ho evitato di chiedergli se avesse cambiato idea.

Cosa rappresenta l’ulivo per te e per la terra in cui sei nato?

E’ l’albero della drammaticità che tutto contiene. E’ la pianta della luce, prima dell’elettricità c’era l’olio. E’ una scultura che esprime tutta la cultura mediterranea. L’ulivo mi racconta e mi ha fatto capire che l’arte non implica alcun tipo di sforzo. L’arte non sei tu, ma il tuo spirito guida. L’artista è solo un tramite.

Questo “secolare cantastorie mediterraneo” sembra sfinito, con la lingua di fuori, cosa racconta?

Non ho mai un’idea di partenza, comincio a lisciare il legno finché non diventa come marmo. Le mie sculture sono apotropaiche, la lingua serve a scacciare lo spirito maligno che è dentro di noi.

Cantautore dagli anni ‘70, quando sei diventato scultore?

Per caso, quattro anni fa. Prima facevo il falegname, poi ho perso la falange di un dito e per paura di non poter più suonare la chitarra, mi sono limitato a piccoli lavori di restauro, cornici e antiquariato.


E la prima scultura?

Avevo comprato dei pezzi di legno per il camino. Mentre li sceglievo, mi sono soffermato a guardarne un paio, molto particolari. Era come se volessero comunicarmi qualcosa. Così ho provato a modellarli e sono nate le prime forme.

Le tue opere hanno la stessa funzione delle maschere agli angoli di antichi palazzi, sotto i balconi in pietra. Scolpire queste figure grottesche significava scacciarle dalle abitazioni ed esorcizzarne la paura. C’è qualche attinenza tra le due cose?

Non ho preso ispirazione da queste decorazioni, ma molti mi hanno detto che il mio lavoro probabilmente discende dalla cultura greca. Sono venuti dalla Svizzera, due ragazzi, per girare un documentario proprio su questo.

Nel brano “Senza bagagli” torni a parlare di anime, però quelle buone.

Bisogna esorcizzare la paura della morte per migliorare la qualità della vita. “Se nella vita sei stato un fiore, sopra la terra lasci il tuo buon odore”. La presa di coscienza delle tue azioni diventerà  un profumo per una società diversa. Questo rende la tua anima più leggera e in grado di farla volare, senza pesi terreni. Come il fiore, anche le foglie, terminato il loro ciclo, si distaccano dagli alberi e nella terra diventano humus, nuova energia. Con umiltà, ognuno di noi lascerà traccia di sé.

Dopo “Jata Viende” del 2003 pubblicato con il Circolo Gianni Bosio e “”Nuzzole e pparolu” del 2007 per l’etichetta Anima Mundi, ora “L’ulivo che canta”. Tre dischi in dieci anni e prima? 
                                             
Ho sempre cantato perché avevo bisogno di dire delle cose, di prendere posizione. A venticinque anni me ne sono andato in autostop con i “Cristiani per il socialismo” nei campi-scuola e nei campi di lavoro. Senza neanche saper accordare la chitarra, inventavo delle canzoni nel tentativo di mettere a fuoco una certa società che andava avanti.

“Lu frate in polizia” è una canzone che nasce in quegli anni… possiamo definirla “canto di emigrazione”?

Quella di chi non trovava posto in Germania e si arruolava. Come è successo a mio fratello, emigrato al nord per entrare in polizia. Per la famiglia, un figlio poliziotto significava avere una sicurezza economica. L’importante era che fosse sistemato a vita, non c’era un’elaborazione ulteriore. Per me, invece, mio fratello se lo stavano comprando, per metterci gli uni contro gli altri. “La colpa è di li patrune che s’ccattan li cchjù bell e li cchjù fort de li guagliun”: il potere economico ha sempre la capacità di scatenare la guerra fra poveri. Quando c’erano gli scioperi o le manifestazioni, li vedevi gli uni contro gli altri, meridionali contro meridionali, chi era andato per lavorare e chi era andato per lavorare, ma in maniera diversa. Avrei voluto dire a mio fratello, “lascia la polizia, vieni dalla mia parte”, per impegnarsi a diffondere una cultura orientata alla presa di coscienza delle proprie azioni, è questa la cosa importante.

Lo spettro del padrone riappare nella canzone “La fattora”, la donna del caporale o “Soprastante”, come lo chiamava Matteo Salvatore. 

La fattora era la “soprastante” che sorvegliava i lavoratori e li obbligava a ritmi forsennati. Quando andavo a raccogliere le olive, lei ci diceva “ioccia! ioccia!”, “sbrigatevi! Riempite in fretta il vostro paniere!” . Era povera come noi, ma era la prescelta. Una che si vendeva al padrone non poteva di certo fare gli affari della povera gente.

Quanti anni avevi?

10, 12 anni.

E per quanto tempo hai fatto questo lavoro?

Due anni.

E a scuola non ci andavi?

Ho frequentato fino alla quarta elementare, poi ho litigato con la maestra e non ci sono più tornato. La quinta l’ho recuperata anni dopo, con le scuole serali.

Non potevi cambiare maestra?

Ci ho provato, ma non me l’hanno permesso. E’ una vicenda molto controversa, che ho vissuto come una violenza e mi ha creato degli scombussolamenti psichici enormi. Mi teneva al suo servizio, mi mandava a fare la spesa durante l’orario scolastico, l’estate dovevo andare tutti i giorni a casa sua. Mi avrebbe fatto studiare, diceva. Mi teneva così, senza un vero motivo. Mi faceva trovare sempre un piatto di pasta, ma io non la sopportavo. Alla fine ho detto basta e ho dovuto chiudere anche con la scuola. Per anni ho avuto il rifiuto della scrittura, la vivevo come una tortura, ancora oggi ho difficoltà persino a leggere. Poi, per fortuna, Dio mi ha compensato in modo diverso, con la creatività che mi ha dato.

C’è stato, invece, nella tua vita, un maestro di musica, come il “portatore cieco di serenate” incontrato da Matteo Salvatore?

Mi ricordo le feste di carnevale, in campagna si cantava, ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare un maestro, un personaggio forte che raccontasse la realtà com’era. Sentivo solo cose folkloristiche.

Hai mai conosciuto Matteo?

Poco, ma da lui ho ripreso la formula del banditore che chiama a raccolta “sentite… sentite!” per raccontare “Lu prefisce”. E’ la storia di come è andata alla malora un’altra grossa economia del nostro Paese, quella dei fichi.

Che cos’è lu prefisce, il profico?

Per avere delle buone annate, l’albero di fico si doveva “improficiare”. Per questo mio padre andava a comprare i profichi, un’altra varietà di fico che non arrivava mai a maturazione, ma produceva dei moscerini, i “tampagnul”. Bisognava lasciare un po’ di questi profichi ai piedi della pianta o tra i rami, affinché i moscerini deponessero le loro uova nel fico “femmina”, che dopo questo trattamento naturale, diventava il frutto dolcissimo e saporito che tutti conosciamo.
Era una fiorente economia, c’erano stabilimenti che impacchettavano i nostri fichi per l’esportazione, quelli di scarto diventavano spirito, perché pieni di zucchero. Ora si fanno le “fiche maritate”, quelle con le mandorle dentro, o i fichi secchi, ma il grosso marcisce a bordo strada e nessuno se ne cura.

Parliamo ancora di sprechi con la canzone sull’acqua.

A Ostuni, quando non pioveva, si facevano le suppliche a Sant’Oronzo. La canzone dice “L’acqua che non cade, in cielo resta, e quando cade a terra rinfresca la terra, ma noi non abbiamo mai pagato il padreterno”, invece, su questo pianeta c’è chi si sostituisce a nostro Signore. Senza contare che vendere una bottiglia d’acqua a un euro è rubare. Noi la compriamo, la strapaghiamo e nessuno si ribella più.

La tua voce contadina si trova a suo agio tra arrangiamenti blues, gospel, arabeggianti di Mauro Semeraro. “Fore a dde me” è addirittura un blues rurale swingante, quasi funky. Di cosa parla?  

E’ un blues botta e risposta sulla dipendenza che abbiamo da beni tecnologici e di consumo. Doveva somigliare a una preghiera, il Rosario che in campagna mia madre mi faceva dire tutte le sere.

Che ricordo hai di un altro tuo indimenticabile conterraneo, Enzo Del Re?

Negli anni ’70, con Enzo, ci siamo cercati spesso, soprattutto se c’era da intervenire da qualche parte. Era molto chiuso, aveva le sue fisime, vedeva le cose a modo suo, aveva la sua visione di classe e non si metteva mai in discussione. Si dice che quelli di Mola siano “captuost”, Enzo lo era, una vera testa dura, se penso che non si è fatto nemmeno curare…
Scelti per casualità divina o alchimia, Enzo e Matteo sono stati dei tramiti che hanno lasciato una scia di cose belle. Qui, ogni paese ha il suo artista, chi è vivo deve andare a cercare queste testimonianze, io credo molto nelle piccole cose, mai nelle grandi.



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martedì 17 settembre 2013

Capossela e la Banda della Posta
Ca...litri di vino e musica nella valigia dello sposo


Ho visto il concerto della Banda della Posta di Vinicio Capossela due volte: il 25 aprile e l’8 settembre. Centrare casualmente una doppietta così solenne merita una riflessione. La liberazione e la resa. Un po’ come accade nel matrimonio: quando comincia, è come scendere a patti con l’amore, quando finisce, è quasi sempre una liberazione. Ho parlato di matrimoni, ma avrei dovuto scrivere “sposalizi”, termine che implica l’aspetto più carnale di tutta la faccenda, con il cibo, il ballo e la sfrenata ebbrezza dionisica del giorno di festa.
Tanta la carne al fuoco. Si potrebbe cominciare dal caglio che mio nonno andava a comprare dal macellaio di Calitri per fare il caciocavallo podolico. Potrei partire dalla mitica montagna di Rapone, dove la baracca rosa di Lorenzo Pinto è la versione vintage della casa di Peppa Pig.
Potrei descrivere i matrimoni da Mast’Antonio, dove si arrivava dopo il lauto pasto per buttarsi nella mischia, bere e ballare, abbracciare sposi e compari mai visti prima e mai più riconosciuti, ma sono tanti gli elementi che compongono il dna dell’ultima creatura di Vinicio Capossela e non posso sviscerarli tutti. 
Allora parto dal nome: Banda della Posta. La Passione e la pensione, la processione religiosa del Santo patrono e quella laica di chi lavora a padrone. Il nome suggerisce anche uno scenario assolato e western di un manipolo di nonnetti “appostati” come banditi, davanti all’Ufficio postale, in attesa del meritato bottino. 
Il repertorio potrebbe non avere confini e sicuramente è una porta che si apre a fisarmonica sul passato, sui “ballabili” dello stesso Vinicio e sul variegato mondo sonoro dei cosiddetti “canti d’emigrazione”. 
Come è strombazzato sul cd della Banda, il concerto inizia con “Primo ballo” dopo un’overture che lancia la sfida: “España cañì”, paso doble degli anni Venti, simbolo della lotta tra il toro e il suo torero, un passo a due, come lo sposalizio. Il brano funziona da sipario e ci dà il benvenuto nell’arena. 

C’è un primo ballo, ma non l’ultimo… perché lo sposalizio è solo uno spossante inizio, e la musica, il cibo, la durata della festa sono la metafora di una promessa di abbondanza per un uomo e una donna che vanno incontro alla vita “finché morti non li separi”. C’è “la serenata a ingiuria” di Calitri, quella che ancora oggi si canta sotto il balcone della sposa, per amore, ma anche per dispetto... 
Dalla Banda al banditore. Capossela ripropone tre “classici” di Matteo Salvatore, “I proverbi paesani”, quella che tutti chiamano “Ratatatumpa” (in una sola parola tutta la percussione di una marching-band), “I maccheroni” (chi muore muore, chi campa campa e nu piattu di maccarruni cu la carna…) e “L’inno della Repubblica” scritta, a quanto pare, dal padre del cantautore del Gargano mentre era detenuto nel carcere di Lucera col sindacalista Giuseppe Di Vittorio. 
Sono nozze d’oro, invece, per papà Vito Capossela e signora che seguono dal backstage il tour della Banda. A Vito, “collezionista di foto davanti a macchine non sue”, partito per la Germania nel ‘63, Vinicio aveva già dedicato, nel 2003, “Si è spento il sole” di Adriano Celentano, inserendola nel cd antologico “L’indispensabile”. Nella scaletta della Banda c’è spazio anche per altri 45 giri della “fonovaligia dell’emigrante”, quelli che Capossela chiama i grandi interpreti dell’emigrazione ferroviaria, Salvatore Adamo, Rocco Granata e i Barritas di Benito Urgu. Tra i papabili è previsto persino un brano di Nicola Di Bari, altro grande personaggio che in Italia meriterebbe maggiore attenzione. Questa volta però la canzone del cantante di Zapponeta cede il posto ad un omaggio al Festival Frammenti di Frascati e al territorio ospitante: “’Na gita a li castelli” nota anche come “Nannì”.

Le copertine di questi 45 giri sono un vero spasso. L’unità grafica che racchiudeva il ballo, la nostalgia per il paese lontano, la musica di tradizione, il giovane dal nome tosto, a volte esotico, era rappresentata da una fisarmonica, strumento-simbolo dell’emigrazione. Anche perché facilmente trasportabile nei bauli o nelle valigie chiuse con lo spago. Uno di questi che andavano per la maggiore si chiamava Vinicio e non è un caso che rientri in questo discorso. Una volta, Capossela ha raccontato che papà Vito possedeva una collezione di dischi di questo misterioso e fantomatico personaggio, specializzato in tango. Da Vito a Vinicio il passo è breve e il battesimo, anche musicale, è d’obbligo. Così l’identità di Capossela si delinea attorno a uno pseudonimo, perché dietro al Vinicio fisarmonicista del tango che spopolava nelle balere d’Oltralpe, si celava, in realtà, Eduardo Alfieri, autore, arrangiatore, direttore d’orchestra di tanta canzone napoletana degli anni ’50-‘60, nonché pianista di Sergio Bruni. 

Tra un fox-trot, una polka, una tarantella, il tango e una quadriglia comandata, arriva “Occhi neri”, “un vero pezzo “mariachi”, poi una ranchera che sembra annunciare nella sua parte finale strumentale “Marina” di Granata e invece arriva “Manuela”, il lato A di quel vinile da esportazione. La canzone, già popolare nella versione di Luciano Tajoli, diventa un cavallo di battaglia del calabrese di Figline Vegliaturo, in provincia di Cosenza, Rocco Granata, minatore figlio di minatore (quando si dice che il destino è già scritto nel nome), emigrato con la famiglia in Belgio nel ’48. 
Anche qui, il pezzo finisce a sorpresa, giocando con le note greche de “I ragazzi del Pireo” di Manos Hatjidakis.
Giocare, voce del verbo “to play music”, con chitarra, scopa, canto, calici, stelle filanti e pistolettate, Vinicio Capossela, con Franchino ‘u parrucchiere alla chitarra, Peppino detto Totta Creta alla fisarmonica, il cowboy del ritmo, Antonio Daniele, alla batteria… solo per citarne alcuni.

A Frascati mancavano all’appello un mandolinista e il Primo violino, Peppino detto Matalena che, all’occorrenza, siede all’organo per le grandi cerimonie religiose. Infatti, l’8 settembre a Calitri e in buona parte del Meridione d’Italia si festeggia la Madonna Addolorata e in ogni festa religiosa c’è sempre un cantante “pop”. Quella sera Matalena è rimasto a Calitri mentre, parallelamente al suo organo, si esibiva in piazza Franco Simone. Se ho capito bene, ho immaginato Peppino come l’unico baluardo della Banda e della Posta che non poteva lasciare il suo avamposto d’onore.

Rispetto al debutto del 25 aprile, sono aumentati i brani di Vinicio affidati alla rumorosa compagnia, come a volersi “sponzare” fino in fondo, che vuol dire, come ha spiegato lo stesso Capossela nella premessa (nonché promessa) al Calitri Sponz Festival di fine agosto, calarsi nel ballo con anima e corpo e quindi “inzupparsi” di sudore. Un po’ come il "pane cuotto" o la frisella nel pomodoro.
“Che cos’è l’amor”, “Con una rosa”, “Pena del Alma”, “L’uomo vivo”, “Il ballo di San Vito” e altre, ma soprattutto “Ovunque proteggi”, che l’autore stesso ha chiamato “canzone abbracciabile per eccellenza”. 

Mai definizione potrebbe essere più appropriata di “chef d’orchestra” per Vinicio Capossela che incita il pubblico al ballo, se non altro per digerire le cannazze di maccheroni, piatto forte del pranzo nuziale. 


Il richiamo delle origini, la forza degli archetipi ci fanno sentire parte di una stessa comunità. È questo lo spirito che pervade il concerto, un rito corale e liberatorio, specie quando Capossela, sponzato al punto giusto, si lancia in un ballo vorticoso con sua madre, trascinandola dal retropalco all’altare della musica. E’ a quel punto che mi viene in mente uno strano accostamento, Vinicio Capossela-Bruce Springsteen. Qualche anno fa, ho assistito ad un concerto di Springsteen (e il video è rintracciabile su youtube) in cui il Boss, come un emigrante qualunque, abbraccia la madre sul palco e si mette a ballare con lei. Allora penso agli Stati Uniti raccontati da Springsteen, quel lavoro sull’America più profonda, alla ricerca della vera anima popolare del Paese, culminato nel tributo a Pete Seeger, un cd e un tour in cui il cantautore del New Jersey è accompagnato da una band da saloon, il corrispettivo country della Banda della Posta. Lì il banjo, qui il mandolino. Alla vigilia di quell'impresa, Springsteen disse: “anche se non conosci il disco, al concerto puoi sentirti come a casa”. I Pete Seeger, i Woody Guthrie italiani sono Matteo Salvatore, Enzo Del Re, i Tottacreta, i Matalena, quelli che Capossela ha tanto amato, ha un po’ sposato e riportato a casa. Tutto torna, a casa, prima o poi. Come l’emigrante.

Bruce Springsteen & The Seeger Session Band
Vinicio Capossela e la Banda della Posta

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