sabato 31 ottobre 2020

Le lezioni di Roberto Vecchioni: “Sono sempre stato, con gioia, comunista”

“Dobbiamo avere il coraggio di fermarci, la vita umana è più importante, ma presto ritorneremo a volare”, verbo tanto presente nelle canzoni del professor Vecchioni ed ora anche nel suo nuovo libro, “Lezioni di volo e di atterraggio. Le lezioni che tutti avremmo voluto ascoltare a scuola e nella vita”, scritto durante il lockdown.

“Lezioni di volo e di atterraggio” è un libro epico che parla di miti, di eroi, del significato delle parole e del rapporto con gli studenti. Per caso le manca la scuola, professore?

Mi manca proprio il Liceo, perché era un crescere insieme, un costruirsi tutte le possibilità di fantasia e di sogno, anche logiche, che propone la cultura.

Il mondo della cultura protesta per la chiusura di cinema e teatri, qual è la sua posizione?

Sono d’accordo, ma chi non è artista, non sa che cosa soffra un artista quando non può salire su un palco, è come togliere le ali a una farfalla. Però, purtroppo, qualcosa bisogna fare, non possiamo assolutamente rischiare. Io lo so che protestano i ristoratori, protestano gli artisti, protestano ‘perché quelli là sì e noi no’, protestano tutti, ma la vita umana è più importante di tutto. Torneremo lentamente sui palchi, solo che, al momento, dobbiamo avere il coraggio di starne fuori, per il bene del paese, dobbiamo saper fare questo sacrificio. 

Resta, però, l’equivoco sull’espressione “attività superflue” che ha innescato una serie di reazioni, a partire dalla lettera di Riccardo Muti a Giuseppe Conte

Non l’ho letta, ma è chiaro che la cosa più importante è che noi abbiamo una dignità e vorremmo sentirci dire che tutto questo accade non per toglierci la dignità, ma semplicemente perché non è possibile fare altrimenti. La dignità dell’artista non va assolutamente scalfita.

Nel libro sono narrati tanti aneddoti della sua vita da professore di Liceo, missione che ha svolto per oltre trent’anni, ad esempio ha portato la didattica fuori dalle aule, all’aperto, e non per motivi di pandemia. Perché le chiama “Giornate di follia”?


Si immagina lei, nell’87, portare fuori i ragazzi a fare lezione? E poi, ci invidiavano tutte le classi. Uscivamo una volta ogni dieci giorni, la scuola è fatta anche di sacrificio e di programmi, non vorrei che gli altri insegnanti dicessero: “Ah lui se lo poteva permettere!” Il bello è che ognuno parlava liberamente, un discorso continuo in cui entravamo tutti, per scoprire cosa l’uomo aveva costruito nella cultura scientifica e umanistica. Era una classe di ragazzi bravissimi, che io nel libro ho descritto come pittori perché dipingevano se stessi, una classe di ragazzi che ci stavano al gioco, come quando li ho costretti a studiare il Vangelo o a ripensare Ulisse come un drogato. E’ bello uscire dallo schema, trovare altre soluzioni, anche impossibili, perché l’uomo è un’avventura planetaria, non si può assolutamente costringerlo nelle pagine di un libro.

E’ un libro autobiografico o una lectio magistralis?

Non saprei, è comunque un romanzo, un romanzo di saggi, nel senso di lezioni, ecco, è un romanzo di lezioni, un genere nuovo. C’è una storia dentro, quella tra me e il professor Bataille, una storia a specchio, io che incontro me stesso vecchio, quando la concezione dell’amore cambia completamente. E poi c’è la storia dei ragazzi.

Con qualcuno di loro è rimasto in contatto?

Sì, molti mi hanno scritto via mail, attendono freneticamente questa uscita per sapere cosa dico di loro. Mi stupisco, piuttosto, di non averle scritte prima le mie lezioni. Come mai mi è venuto in mente solo adesso? Sarà stato il blocco che abbiamo avuto a marzo, dovendo stare in casa, mi son detto che era la volta buona per ricordare quello che insegnavo"

Nostalgia?

Tanta nostalgia, insegnare è stata per me la cosa più bella del mondo, anche più di andare su un palco a cantare. E’ un rapporto infinitesimale di amicizia e passione, ma anche di autorità, che non dimenticherò mai. Sono cresciuto tanto, da pischello, come dicono a Roma, sono diventato una persona abbastanza sicura di sé e di quello che dice. Noi conosciamo i ragazzi molto di più dei loro genitori, i ragazzi a scuola sono indifesi, li vediamo proprio nella loro anima. Io sapevo tutto, sentivo quando non ce la facevano, non li interrogavo quando capivo che avevano un problema. Non parlo dei superbi, quelli con me avevano vita breve, li conciavo sempre malissimo. Il Liceo è un universo, è come essere in una bolla, in cui vedi i riflessi dell’esterno, e tu dentro, guardando le cose, indaghi te stesso, questo facevamo.


“Poesia e canto sono due forme di un identico pathos”. In un capitolo, descrive la sua amicizia con Alda Merini e ci regala una sua poesia inedita, chiosando: “Dovrebbero tradurla a Bob Dylan”.

Dylan dovrebbe leggere tutta la Merini, non solo quella poesia, per capire come si può scrivere con poche parole, la Merini non ha un vocabolario esteso, però è un vocabolario di grandissimo pathos, le parole le sa mettere.  Lei scriveva al volo, non correggeva mai, l’ho vista scrivere sulle porte delle case, sulla carta igienica, dettava perché non voleva nemmeno fare la fatica di scrivere.

Per spiegare il mito, si va da Fabrizio De Andrè, quasi un rito di iniziazione per molti di noi negli anni del Liceo, alla squadra del cuore, nel suo caso l’Inter, con Mario Corso, l’inventore della “foglia morta”, scomparso recentemente. Chi è per lei il Mario Corso della canzone d’autore?

Come genialità probabilmente Rino Gaetano, forse il più bizzarro, il più estroverso e nuovo cantautore, ma non c’è solo lui, ce ne sono anche altri che hanno queste caratteristiche. Il guizzo, quello che fa cose che nessuno sa fare, ecco quello è il Mario Corso. De André è stato bravo sempre, non lo associo a Mario Corso, De Andrè è come Ronaldo, Mario Corso aveva quel colpo di genio che stupiva. Anche Jannacci era un Mario Corso.

Lo sa che il preferito di Rino Gaetano era Enzo Janancci?

Ecco, senza saperlo ho beccato i due che si somigliano, in fin dei conti.

Recentemente il premier Conte, alla commemorazione per Willy Monteiro Duarte, ha detto: “Bisogna scardinare la violenza con lo studio, la conoscenza, il coraggio”. Cosa ne pensa del dilagare del linguaggio dell’odio e dei commenti brutali che infestano i social?

Il mondo è condannato alla complicazione, non alla semplificazione, per cui si annoda tutto e i nodi non si riescono più a sciogliere. E’ un’escalation a gradi di incompetenza, tutti quanti pensano che la democrazia sia aprire la bocca e invece la democrazia è pensare a quello che esce dalla bocca, è una cosa molto diversa. Ci siamo ormai abituati a considerare soltanto e quasi sempre il nostro punto di vista e mai quello degli altri, senza quella grande capacità di afflato comune che, come dice bene Conte, dovrebbe continuare ad esistere. 

In un passaggio del libro, scrive: “Non avevo troppa voglia di politica, se n’era appena andato un uomo che, quello sì, era un mito e mi aveva lasciato un buco nel cuore, grande come una voragine”

Lei lo avrà capito, è Enrico Berlinguer e stava facendo un miracolo. Il libro non parla di politica, anche perché sono stufo, ogni giorno ci sono solo trasmissioni politiche e altre venti sul covid, e poi le mie idee politiche le conoscono tutti. Berlinguer è un grande uomo per la semplicità con cui si esprimeva e perché ha tentato di mettere insieme due anime dell’Italia, erano tempi in cui l’intellettuale e l’operaio potevano capirsi, poi si sono separati e si è rotta tutta la sinistra.

Ha appena detto "le mie idee politiche le conoscono tutti”...

Certo, direi.

Ricorderà che recentemente il suo collega e amico, Francesco Guccini, ha dichiarato: “non sono mai stato comunista”, riferendosi alla sua vocazione libertaria, socialista e anarcoide

Io l'ho sempre saputo che Guccini non è mai stato comunista.

E lei, Vecchioni, può dire lo stesso di Guccini?

Certo che no, io sono stato comunista. Lo sono stato per tanti anni, lo sono stato soprattutto, con gioia, quando Berlinguer si è staccato dai russi, ero pienamente convinto. Poi, sa, ci sono anche utopie giovanili a questo mondo, rimango fortemente attaccato al mio pensiero “debole”, che l’uomo è grande, che bisogna aiutarlo, e che tutti abbiamo gli stessi diritti. Sono ovviamente una persona di sinistra, ma avendo ormai passato i settant’anni, non potrei più pensare al mondo come al materialismo meccanicistico di Marx, non ci penso più a quelle cose lì, però so che c’è uno spirito di umanità che gira per il mondo e ci fa uguali e i miei sogni ce li ho sempre, anche se, come le ho detto prima, andiamo verso la confusione, non verso la semplificazione.

Timisoara Pinto

con Roberto Vecchioni nel 2013





venerdì 2 ottobre 2020

“Atom Heart Mother”, la mucca più famosa del rock


Compie 50 anni la mucca più famosa del rock, “Atom Heart Mother”, il quinto album in studio dei Pink Floyd, pubblicato il 2 ottobre 1970, il disco della svolta, del passaggio dal periodo psichedelico ai fasti dei kolossal rock della band.

Atom Heart Mother è uno dei primi dischi della storia del rock a non riportare il nome della band in copertina, senza le foto e le scritte deformate a cui ci aveva abituato la grande grafica degli anni Sessanta.

La band voleva distaccarsi dall’immaginario psichedelico e per questo chiese un’immagine semplice. Fu così che arrivò lo scatto della mucca frisona, citata e omaggiata, tra gli altri, da un album postumo di Frank Zappa, da Aerosmith, Elio e le Storie Tese, Blink 182. 

Atomo, cuore, madre: madre dal cuore atomico. Per il titolo, Roger Waters prese spunto da un articolo di giornale che parlava di una donna in gravidanza a cui era stato impiantato un pace-maker atomico.

I Pink Floyd non hanno mai amato particolarmente questo album al punto che David Gilmour l’ha definito 
spazzatura sperimentale, un raffazzonato tentativo di raschiare il fondo del barile, ma “Atom Heart mother” è ancora oggi, tra i più apprezzati dai fan della band, nonché il primo del gruppo a raggiungere il numero uno della classifica inglese.

Dissonante e intimo, rumori domestici e aperture ariose, con una potenza sonora e orchestrale dovuta all’opera di mixaggio di Alan Parsons e Peter Brown, e agli arrangiamenti di Ron Geesin, compositore d’avanguardia, che per questo disco fu giustamente definito il quinto Pink Floyd. Un film per le orecchie, tanto che Stanley Kubrick chiese ai Pink Floyd di poter spezzettare la suite di circa 23 minuti che dà il titolo all’album in vari momenti di “Arancia Meccanica”. Non se ne fece nulla, ma Kubrick riuscì comunque a inserire il disco nel film, facendo apparire la copertina nella scena ambientata in un negozio di dischi.

Storm Thorgerson, autore della copertina, lo stesso ‘cover designer’ di “The dark side of the moon”, dichiarò: “Penso che la mucca rappresenti il loro umorismo, un aspetto poco conosciuto o sottovalutato dei Pink Floyd”, senza sapere che molti anni prima, nel 1963, una mucca pezzata era già stata utilizzata come foto di copertina da uno dei nostri cantautori più amati e, guarda caso, più ironici, Sergio Endrigo.