(Intervista con Cristina Donà, gennaio 2011, a proposito del disco "Torno a casa a piedi").
Un nido tra l'azzurro e le montagne, la banda passa nella Fiera dei miracoli, un omino percorre 20 chilometri al giorno solo per cantare e la musica riaffiora (ed ora che esce il nuovo disco, riaffiora anche questa intervista).
Tornando a casa, alle origini della tua musica, cos’è cambiato da allora, quando pensavi e lavoravi al primo disco?
Quando ho cominciato arrivavano prima i testi, mentre la voce e tutto il resto passavano in secondo piano. Ora sono diventata un’ascoltatrice più attenta e non è un caso che in questo disco gli arrangiamenti siano più complessi. Sarà per quest’aria pesante che si respira, ma la mia ambizione come musicista è di portare più luce e leggerezza in quello che scrivo. A livello energetico cerco qualcosa che mi dia la carica ed evito tutto quello che rischia di appesantire. Non so se posso metterlo a pieno titolo nella casella dei cambiamenti, ma questo è il mio modo di vivere la musica adesso. Quest’apertura in parte la devo a Saverio Lanza, musicista e arrangiatore bravissimo con il quale ho anche condiviso la scrittura di alcuni brani. Avevo bisogno di dare una nuova veste sonora al mio modo di fare musica e Saverio mi ha svelato un mondo di colori e sfumature a livello armonico sia negli arrangiamenti che negli strumenti usati.
Cos’è che appesantisce?
Non sopporto l’autocompiacimento nel portare avanti un discorso distruttivo, come quelli che nelle canzoni si piangono addosso. Non dipende da quello che scrivi, ma dalla sincerità con cui lo fai e l’energia che ci metti. Per piacermi, la canzone deve arrivarmi con un’espressività forte. Al contrario, mi appesantisce la musica che è fatta solo con le tabelline, il ritornello qua e la strofa là, canzoni inutili per le mie orecchie. Quella musica mi ha sempre annoiato a morte.
E cos’è cambiato intorno alla musica?
Innanzitutto il modo di fruirla, oggi ci sono gli mp3 e quando ho iniziato c’erano i vinili, ma con questo non voglio fare la nostalgica. Dico che probabilmente questo influisce sul mio modo di scrivere, attraverso la ricerca di un linguaggio che possa arrivare immediatamente, senza dire cose scontate o banali.
Puoi parlarmi ancora di questo “feeling energetico”?
Un esempio di energia positiva è l’ultimo singolo dei Verdena. Ammiro molto chi sa affrontare il tema della leggerezza con profondità e loro sono credibili, molto espressivi. Mi viene in mente anche Joan As Police Woman, un’artista straniera che amo molto e che aderisce perfettamente al mio modello ideale, la sua malinconia mi arriva con potenza.
Questo passare da un inizio di stampo decisamente rock all’ampliamento dell’orizzonte melodico è per molti una svolta radicale. Intanto definiamo cos’è rock.
Il rock è un’attitudine. Inizialmente era chitarra distorta, basso potente e un’altrettanto potente batteria. Adesso per me è energia allo stato puro che continua ad esprimersi nel live più che nel disco, è qualcosa da gustare in presa diretta. La parola rock è sicuramente ancora legata ad una tipologia di strumenti, ma anche la semplicità di chitarra acustica e voce può essere rock. Direi allora che se si lega agli istinti primordiali e alla prepotenza di un’energia che non viene incanalata o imbrigliata, qualsiasi musica può essere rock. Certo, cambiando si rischia di perdere qualcuno per strada, ma l’arricchimento che ne traggo lo metto tra le priorità.
Anche il tuo approccio vocale non è più lo stesso?
Pur riconoscendo quell’ingenuità che ti fa tirar fuori cose che non torneranno più, rispetto agli esordi ho fatto una ricerca di cui posso ritenermi soddisfatta. Ho iniziato musicando i miei versi, priva di grandi idee melodiche perché mi mancava proprio quel tipo di ispirazione, non mi interessava. Piuttosto, cantavo dei testi intonandoli su una, due note. Sai, quando fai parte di un circuito underground lo spirito è quello di andare contro la tradizione, vorresti scardinare tutto, ricodificare. Poi col tempo e suonando sempre di più, ho sentito l’esigenza di trovare una melodia vocale, di far cantare la mia voce. Un desiderio di andare verso la melodia che è nato, a dire il vero, già col mio secondo album, “Nido”. Ora voglio dare sempre di più alla musica la possibilità di ispirarmi un testo, quando sono le note a suggerirti alcune parole e non altre. Ho scoperto che abbiamo dei maestri come Battisti, Fossati, Conte, con cui sono cresciuta, ma anche Battiato che ha unito testi surreali a delle melodie molto forti. Insomma, sono tornata all’ovile, forse per una questione di orgoglio patriottico.
Giusto in tempo per i 150 anni dell’Unità d’Italia…
Amo questo paese, non fa tutto schifo. Se voglio esportare qualcosa di mio, voglio che sia italiano. Forse è anche una questione anagrafica: ho 43 anni e prima il mio modo di fare musica era anche espressione dei miei gusti e degli ascolti legati ad un’altra età.
Nei nuovi brani possiamo rintracciare delle influenze dirette dei “padri” che hai nominato prima?
Avevo sicuramente in testa il mondo delle sigle importanti della televisione degli anni Settanta che io conservo come patrimonio genetico, quando la musica in televisione non era affatto una cosa leggera, ma era scritta e arrangiata da maestri con i fiocchi. Penso ad alcune orchestrazioni di “Un esercito di alberi” e “Torno a casa piedi”. Invece, fin dalle prime note, “Miracoli”, che poi è diventata il singolo per le radio, mi aveva fatto venire in mente che poteva essere arrangiata un po’ con lo spirito bandistico di brani come “La banda” di Mina o “Ma che musica maestro” cantata da Raffaella Carrà. Invece, “In un soffio”, come atmosfera e come portamento un po’ in levare, mi ha fatto subito pensare ad “Azzurro” di Paolo Conte.
Con la canzone “Giapponese” hai fotografato un ritmo e uno stile di vita molto precisi.
E’ un brano nato da diversi input e questa schizofrenia è entrata nella canzone. Lo stesso disorientamento lo vivo nel quotidiano, nell’attesa e nel frastuono legato al traffico e al consumismo. Giapponese è il personaggio che incarno quando mi introduco nei centri commerciali, quando riprendo a frequentare la città. Vivendo ormai fuori da vent’anni, in un piccolo paese di montagna, l’impatto con i suoi ritmi è sempre forte. Tante cose della città mi piacciono, non sono una che la rinnega e continuo ad andarci tutte le settimane, ma è difficile viverla, non solo per le questioni legate all’inquinamento e al modo di fare di noi comuni mortali, ma a causa di chi le gestisce queste città. Milano potrebbe essere molto più bella, non è da demonizzare, il problema è che non è gestita bene. Insomma, volevo che il messaggio arrivasse anche in modo scanzonato, una conversazione ipotetica con un’amica con la quale ti confronti e cerchi di capire come gestire le distanze che in città ti mettono sempre a dura prova, il traffico, il parcheggio, e tutto il resto. Non avevo raccontato mai questo mio aspetto urbano e questo brano mi ha dato la possibilità di farlo. Poi c’è un motivo strettamente legato alla parola “giapponese” che mi consentiva di descrivere questa velocità, perché nel mio immaginario le metropoli giapponesi sono quelle che hanno i tempi più frenetici. La prima approvazione è arrivata da mio figlio Leonardo di 5 mesi e lui, ogni volta che gli sussurravo giapponese, si faceva le sue prime grandi risate. Così, un po’ per scherzo, quando ho mandato il provino a Saverio Lanza, ho messo dentro questa cosa del giapponese, confidando che potesse essere un’idea forte alla base della canzone…. Nell’arrangiamento, Saverio ha sottolineato questa successione di tanti input che poi convergono in una musica più lineare, nonostante ci siano degli archi un po’ schizzati, dei pianoforti che non sono proprio ortodossi. Questo la rende una delle mie preferite dell’album e piace tantissimo ai bambini, segno inequivocabile di qualcosa che funziona.
Quindi la città del centro commerciale non è il tuo ideale…
Non è il mio luogo ideale ma si possono trovare degli spunti interessanti. Se ho una giornata libera non vado al centro commerciale, però mi diverto ad osservare e mi chiedo come si possa passare la domenica pomeriggio in un luogo così. Tanti lo fanno perché è diventato la piazza-mercato di una volta, ma è alienante. E soprattutto è preoccupante il fatto che si trovi sempre qualcosa da comprare, perché se finisci lì dentro, non esci mai a mani vuote.
C’è sicuramente il riferimento alla persona che stimo e
ammiro di più, mio marito Davide, con cui ho condiviso gran parte della mia
vita. E’ per me l’esempio di chi fa le cose con una certa coerenza. Ma non c’è
solo lui, ci sono tante persone che portano avanti un discorso di credibilità e
autorevolezza in quello che fanno e sono
in qualche modo sommersi, penalizzati in una società in cui, invece, vince
sempre chi fa finta di avere le idee più chiare e chi urla di più. Il modello
televisivo purtroppo la fa da padrone, in tv vediamo un’ostentazione di
sicurezza su tutti gli argomenti, soprattutto in politica. L’invito a mettersi
in discussione, che è una pratica secondo me tanto importante per gli esseri
umani, non viene mai in mente a nessuno. Dal mio canto, ammiro molto chi
approfondisce, chi sa appunto anche mettersi in discussione, così ho voluto
raccontare a mio modo il disagio nei confronti di questa prepotenza che non
condivido. Un inquinamento mentale, una pratica nociva che, a mio modo di
vedere, si aggiunge a tante altre.
In “Miracoli” ci sono
due citazioni, una a proposito di un
film di David Lynch, l’altra riguarda la poetessa polacca premio Nobel, Wiesława
Szymborska. Ce ne parli?
Sono una lettrice disordinatissima però ho dei punti di
riferimenti che per me sono intoccabili. Tra questi c’è la Szymborska e una sua poesia in particolare, “La
fiera dei miracoli”. Si vede che ha seminato così bene il suo verbo che quando
ha germogliato ha sicuramente partecipato al testo della canzone. L’ altra
influenza riguarda Lynch. Amo da sempre le sue atmosfere, i suoi film più
lirici, lo stesso Twin Peaks… credo che Lynch abbia davvero creato un
linguaggio nuovo. Tuttavia il film che ha ispirato la frase che apre la canzone
è “Una storia vera”, il meno astratto e sognante, proprio perché basato, come
dice il titolo, su un fatto realmente accaduto. Alla fine della visione avevo
preso degli appunti, forse perché con l’andare avanti nella vita ti confronti
con tutta una serie di eventi tristi e dolorosi che inevitabilmente ti spingono
a raccontare. A proposito di come si è trasformato il mio modo di vivere la
musica, ecco ora posso dire che ho cominciato a cantare le cose che mi
commuovono, che non devono essere per forza presentate con pesantezza. Alla
fine di quella storia ho desiderato sottolineare il gesto di quel pensionato di
73 anni che percorre centinaia di chilometri su un lentissimo trattore tosaerba
perché era l’unico mezzo che aveva per andare a trovare il fratello malato.
Così tutto quello che viene mosso dall’amore, da qualcosa di spontaneo tra gli
esseri umani e che crea gesti straordinari per me è degno di nota in un momento
in cui invece si sottolineano solo le brutture e le storture insite nel mondo e
nelle persone.
Sta per uscire, per
Galaad edizioni, la tua biografia “Parlami dell’universo. Storia di un viaggio
in musica” di Michele Monina. Immagino che nel libro avrai dato ampio spazio a
questa nuova voglia di raccontare, puoi anticiparci qualcosa?
Innanzitutto, questa voglia di raccontare sta posticipando
l’uscita del libro. Ogni giorno me ne viene in mente una, ma niente di
eclatante. Con Michele ridevamo proprio del fatto che non ho avuto una vita da
rockstar e non posso raccontare di quella volta che sono rientrata in albergo a
New York barcollando perché ero ubriaca, però in compenso ho tante cose
archiviate sulla scena milanese degli anni ‘90, dove ho mosso i primi passi,
grazie a quei musicisti che hanno fatto la storia di quel periodo. Ci sarà l’io
narratore di Monina e tante finestre
aperte da me sia sui testi, che sono la parte fondamentale, sia sulla genesi di
quella scena musicale, quindi la mia frequentazione con Manuel degli Afterhours
e Jo dei La Crus ,
il ruolo dell’etichetta dei miei primi dischi, la Mescal , che ha avuto
veramente a che fare con musicisti e gruppi che hanno reimpostato la musica
leggera in Italia. Spesso si nomina Manuel Agnelli perché è stato il mio
produttore, ma devo molto anche a mio marito, che ha fatto parte della critica
musicale per anni. Lui mi ha presentato Manuel e gli ha proposto di farmi
aprire un suo concerto nel 91. Poi i La
Crus mi hanno portato in tour con loro per un paio di anni e mi
hanno presentato alla Mescal. Sono felice che dopo gli Afterhours, quest’anno
sia toccato a loro di andare a Sanremo. Forse, uno alla volta, riusciremo tutti
a calcare quel palco.
E perché l’avventura con la Mescal è finita?
Ad un certo punto la Mescal ha venduto il suo catalogo alla Emi, non so se per problemi finanziari o se erano semplicemente stufi di seguire tutto. Non ho mai parlato di questo con Valerio Soave, il capo Mescal, purtroppo non abbiamo più alcun rapporto, perché abbiamo chiuso un po’ bruscamente… Sta di fatto che dall’episodio di rottura con i Subsonica qualcosa si è incrinato, anche il mercato si è ristretto e un’etichetta piccola ha sicuramente maggiori difficoltà a sopravvivere. La Emi ha comprato il catalogo della Mescal, Afterhours e Perturbazione hanno fatto qualcosa e poi se ne sono andati, io ho fatto i miei due album da contratto e adesso vedremo. Però il passaggio è avvenuto con l’appoggio della Mescal, il problema per me è nato su un’incomprensione, un’insoddisfazione rispetto al live che era comunque gestito da una persona collegata all’etichetta. Non ero più contenta, ho voluto trovare un’alternativa e non ci siamo capiti.
Ci racconti un aneddoto sul tuo incontro con il carismatico Robert Wyatt?
Ci siamo conosciuti nel ’97 al Salone della musica di Torino, complice ancora una volta Davide che all’epoca lavorava per la promozione dei dischi di Wyatt. Era appena uscito il suo cd “Shleep”, un titolo curioso, ma Wyatt in quel periodo era particolarmente insonne e da amante dei giochi di parole, aveva inventato questo incrocio tra sheep e sleep, pecora e sonno. Mi è sembrato da subito una persona molto profonda e attenta a quello che fanno gli altri artisti. Quella sera l’ho invitato al mio concerto. Il suo albergo era all’interno del Salone e così, nonostante la sedia a rotelle, è venuto a sentirmi. Successivamente ha parlato bene di me e nella votazione su Mojo dei dischi del ‘97 il mio era citato tra quelli che gli erano piaciuti di più. Allora ho pensato di coinvolgerlo nella lavorazione dei miei nuovi brani e due anni dopo è nata “Goccia” in cui Robert suona la cornetta e aggiunge suoni con la sua voce.
Qualche anno fa, sempre con Michele Monina, hai scritto un libro seguendo le tracce musicali dell’America di Springsteen. Quale itinerario sceglieresti per un ideale viaggio in Italia?
Partirei dalla Sicilia e dall’influenza del Mediterraneo, di quelle musiche arrivate dai paesi arabi e poi salirei passando attraverso la Puglia di Modugno, cercherei di studiare quello che c’è stato prima, la miscellanea che si è venuta a creare con l’arrivo degli americani e con l’impatto che la musica anglosassone ha avuto su di noi. Andrei alla ricerca delle mie origini tra Veneto e Lombardia. Sarebbe un libro molto difficile, mi servirebbero due anni di tour.
Insomma, tutto ci
riconduce al titolo che hai scelto per il tuo nuovo disco: Torno a casa a
piedi.
Già, tutto torna... Un primo simbolo forte è l’inizio di
“Miracoli”, la canzone che apre il disco. Se ci fai caso, ci sono io che do il
tempo e conto fino a 4, mentre di solito si conta all’inglese,
one-two-three-four.
Si può quindi dire che è il tuo album più italiano?
Sì e ne vado fiera.
Questo tornare a casa a piedi potrebbe tradursi anche musicalmente in un disco sulle tue origini?
Sicuramente mi trovo in quel momento della vita in cui si ha voglia di fare un bell’albero genealogico. Quando sei adolescente, se non vedi i tuoi parenti diciamo che non ti dispiace, poi arriva il giorno in cui vuoi saperne di più su di te, attraverso il tuo dna familiare e culturale, e cerchi di riappropriartene. Ad esempio c’è una storia bellissima che riguarda il fratello di mio nonno, che ora non c’è più, che cantava nel coro di Adria e questo ragazzo, dopo il lavoro ad Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, andava ad Adria a piedi a fare le prove, 10 chilometri all’andata, 10 al ritorno. Erano talmente poveri che le biciclette sono arrivate dopo.
Non ci sfornerai qualcosa in dialetto?
Con i dialetti sono un disastro, non ne parlo neanche uno, ma se vado avanti di questo passo ci sarà anche un disco in dialetto. Ogni tanto mi butto con Ginevra Di Marco e il suo tour di Stazioni Lunari, ma il bergamasco lo escludo perché è molto lontano da me nonostante io viva qua da sempre, tra Rho e la provincia di Bergamo, in Valseriana, un luogo che prende il nome dal fiume Serio. Non mi sento a mio agio nel bergamasco, quello dei miei genitori, un incrocio tra il rovigotto e il ferrarese lo capisco, ma se lo parlo mi sento ridicola e comunque lo approfondirò. Non saprei quale scegliere, forse il milanese, o i dialetti che mi fanno simpatia, come il toscano e l’emiliano.
Cosa canti in concerto con Ginevra Di Marco?
Ultimamente ho proposto “I miei sogni d’amore”, un brano di Gabriella Ferri che tra i nomi del varietà degli anni ‘70 è un personaggio che amo alla follia. Da quando ho scoperto che era anche autrice di molti di quei brani che cantava, mi è venuta voglia di approfondire. Tra i brani in dialetto dove cerco di interagire ma soltanto con le armonizzazioni, senza esagerare, c’è un tradizionale siciliano dal titolo “Amuri”. E poi “Malarazza” di Modugno dove tento di cantare questo strano dialetto che mi intriga. Forse dovrei crederci solo un po’ di più.
foto di Timisoara Pinto (King Kong, Radio1, 29 settembre 2014)