Il tour “Polvere” debutta il
23 giugno nell’ex cava Ricci di Pignola
"Antonio Infantino? Uno che mette la mano sul fuoco per descrivere il fuoco"
"Antonio Infantino? Uno che mette la mano sul fuoco per descrivere il fuoco"
Il tour estivo di Vinicio Capossela partirà dalla “Polvere” di una cava, una terrazza scavata sui monti di Pignola, in Lucania, la regione più folk e magica d’Italia, come scriveva, oltre sessant’anni fa, Ernesto de Martino. Lo scenario ideale per un disco d’Appennino, che Capossela ha concepito a Calitri, il paese dove è nato suo padre Vito, canzoni “sponzate” in un immaginario rurale, mitico, mitologico, ancestrale, quello dell’alta Irpinia, che si accoppia paesaggisticamente e culturalmente (complice il letto del fiume Ofanto), con la vicina Lucania.
Si chiama “Canzoni della cupa” e non poteva non contenere il timbro potente e ruvido dello strumento lucano più emblematico e onomatopeico, il cupa-cupa di Antonio Infantino e del suo inseparabile Agostino “Agotrance” Cortese.
L’album “Canzoni della cupa” offre due dorsi, due lati diversi, come il nostro Paese tagliato, o meglio, cucito dalla dorsale appenninica. Paesi dell’Italia interna che offrono una faccia all’ombra e un’altra al sole e che hanno un aspetto diverso a seconda che siano accecati dalla luce o baciati dalla luna, con due letture diverse del folk, una più rassicurante, l'altra decisamente meno.
Nel lato “Polvere”, Capossela reinterpreta canti di tradizione e brani di cantautori del Sud, primo fra tutti, Matteo Salvatore, registrati in parte tredici anni fa e completati tra i vicoli del paese d’origine; nel secondo “Ombra”, la frontiera del lupo, le vallate irpino-lucane si fondono con la frontiera tex-mex di Flaco Jimenez, quella dei Calexico del deserto di Tucson, fino a quella dei Los Lobos, in composizioni originali nate dalla sua appassionata frequentazione delle musiche e dei musicisti di tradizione.
L'album è uscito anche in versione vinile in quattro LP, a rafforzare l’importanza del disco come creatura musicale da custodire, un formato che fa venire subito alla mente l’opera più importante di Matteo Salvatore, “Le quattro stagioni del Gargano”, pubblicata a metà degli anni Settanta in quattro dischi a 33 giri. In un anno, dopo un libro, un film e due cd, il cerchio si chiude a Pignola, dove questo ciclo si era aperto nel 2003.
C’è un legame forte tra la Lucania e Matteo Salvatore che alla fine degli anni Settanta, dopo le sue vicende giudiziarie, fu ospitato da amici come il poeta Vito Riviello e il cantautore Pietro Basentini per una serie di trasmissioni radiofoniche registrate nella sede regionale della Rai e il tema della ciclicità delle stagioni torna anche nel giorno prescelto per la data zero del tour, il 23 giugno, la notte di San Giovanni, quella che Shakespeare ha chiamato “sogno di una notte di mezza estate”.
Un’altra citazione lucana, anche in questo caso involontaria, si ritrova, infine, nei titoli scelti per i due lati di “Canzoni della cupa”, ancora una volta a indicare il mutare delle stagioni: “Pulvus et umbra sumus” era, infatti, un verso di un’ode del poeta latino Orazio, nato a Venosa.
A poche ore dal debutto lucano del tour, nell’ambito del festival “Percorsi diversi” organizzato dalla Compagnia della Varroccia, nel pomeriggio di sole e di prove, Capossela condivide su facebook: “Siamo sinceramente ammirati da quanto hanno messo in piedi i ragazzi di Pignola per il prossimo concerto d'apertura delle “Canzoni della Cupa”. Non è solo un allestimento, è un set cinematografico! Un western metafisico! In una cava disposta come gli antichi greci disponevano i loro anfiteatri, su un infinito fatto di monti ondulanti e nuvole in viaggio”.
Lo stesso entusiasmo contagioso dei “Portatori del Santo”, i ragazzi della festa patronale in onore di San Gerardo (prutettor d’ Putenza generale…) incontrati al Potenza Folk Festival, proprio in occasione dell'annuncio di questo tour, che gli fa dire: “Vorrei invitare chiunque abbia in mente e in cuore di aprire un’impresa a delocalizzarla nei nostri paesi dell'Italia interna (anziché a Taiwan o in Bulgaria), dove si trova il sostegno di quel fattore umano capace da solo di smuovere le montagne. Figuriamoci se fosse aiutato.”
Proprio in quell'occasione, a Potenza, Capossela ha risposto ad alcune domande sullo spirito lucano che in qualche modo lo attrae e confluisce nella sua ricerca.
Ripartiamo dal titolo che da queste parti fa pensare alla percussione sdoganata anni fa dai tarantolati di Antonio Infantino. Perché “Canzoni della cupa”?
“Si chiama così perché nel paese di Calitri, come in moltissimi altri paesi dell’Italia interna, c'è una contrada che si chiama cupa, dove batte poco il sole, territorio delle leggende, dei racconti, delle cose che non si capiscono bene. A Calitri, in particolare, si dice che, tra la paglia del fieno alto, si nascondesse la “creatura della cupa”, una neonata ritrovata da un contadino, attirato dal suo pianto, in una notte di pioggia. La leggenda racconta che quest’uomo nel tentativo di sollevarla, perché troppo pesante, si accorse che la piccola aveva le sembianze di un demone, di una creatura del mondo magico, come diceva de Martino. In paese è diventato un modo di dire per indicare chi è basso di statura e pesa molto, un po’ come tutte le mie zie che non superano il metro e sessanta di altezza, ma non si riescono ad alzare da terra. Sono in qualche modo anche loro creature della cupa, e lo è anche questo doppio cd che è un disco di alto peso specifico”.
Cosa ti piace di questi luoghi e cosa ti porta così spesso a sconfinare in Basilicata?
"Sicuramente l’attrazione per tutta l’opera di studiosi come De Martino e Carlo Levi. Quando, nel 2003, ho cominciato a lavorare alle canzoni di questo disco, fu proprio Infantino a suggerirmi di andare a Pignola perché c’era un gruppo che faceva ancora musica popolare con il cupa cupa e gli strumenti della tradizione. All’epoca avevo ascoltato soprattutto i dischi del leggendario Gino Volpe. C’era una tarantella lucana formidabile che ascoltava mio padre con un forsennato comando di quadriglia che finiva così: “evviva il Meridione, evviva la Lucania, evviva Potenza”, andando a stringere gradualmente l'obiettivo e tu già sapevi dove andava a parare".
Perché questo cerchio si chiude ora, dopo tredici anni?
"Credo che ci siano delle cose a cui bisogna dare del tempo, perché ingigantiscono dentro di noi, soprattutto se attingono alla stessa materia della terra e quindi delle stagioni. Questo vuol dire che l’estate torna tutte le estati, la notte di San Giovanni c’è tutti gli anni, è un tempo ciclico dove in realtà il tempo non passa. In “Canzoni della Cupa” si parla di quello che non è bene in vista, ma che è un’ombra che sta riparata, nascosta. Sono delle cose a cui bisogna dare fede e tempo. E’ un lungo lavoro che è stato fatto non solo per questo disco, ma anche per il libro che si chiama “Il paese dei coppoloni”. Carlo Levi, quando studiava il mondo dei contadini, parlava “del tempo ciclico”, dove le cose sono quasi immobili. E’ una dimensione legata alla poesia, al mito, ma noi viviamo in una dimensione diversa che è quella che lui chiamava “Civiltà dell’orologio”.
Questo tempo immobile me lo sono conservato a lungo perché mi piace molto starci dentro."
Dopo Matteo Salvatore, ti sei avvicinato ed hai frequentato artisticamente altre due figure di grande fascino e carisma musicale, il già citato Infantino ed Enzo Del Re. Puoi descriverceli nella loro unicità?
"Mi fa piacere ricordare queste figure perché sono conosciute molto meno di quanto meriti la loro arte. Matteo Salvatore è stato il più grande cantore dello sfruttamento e della disuguaglianza e della fame soprattutto nel mondo del latifondo meridionale dal fascismo fino agli anni ’50. Un trovatore che ha cantato nella lingua del paese da cui veniva, una lingua molto aspra come le cave di pietra di Apricena, che io personalmente ho scoperto all’estero. Un musicista francese mi ha fatto ascoltare per la prima volta un disco del grande Matteo Salvatore, “Il lamento del mendicante”. L’ho conosciuto negli ultimi anni della sua vita e aveva lo sguardo della faina, era un cantastorie popolare che ha messo dentro di sé tutta l’arguzia la furberia, la prontezza di spirito di questo tipo di cultura.
Enzo Del Re era un intellettuale, un anarchico, o, come l’ha definito Giovanna Marini, “un santo” per la sua integrità e per la sua mono-tonicità della dottrina marxista più schierata e più pura. Ha fatto canzoni meravigliose accompagnandosi solo con il rumore di una sedia perché voleva trasformare la sedia elettrica che aveva ucciso Sacco e Vanzetti in uno strumento di vita e di musica e si definiva oggettista-corpofonista.
Un anno dopo la sua morte, a Mola di Bari nella serata organizzata in suo onore, sono rimasto stordito dalla “potenza di fuoco” di Antonio Infantino e dai suoi ragazzi di Tricarico che suonavano “Avola”. Non ho mai sentito raccontare la storia di uno sciopero che finisce con i morti ammazzati dalle forze dell’ordine, così, senza nessuna retorica, ma con quella potenza di una cronaca diretta, di uno che mette la mano sul fuoco per descrivere il fuoco. Infantino è una specie di sciamano-profeta, un ottimo osservatore con cui si può parlare di architettura, di energia del cosmo, della Tricarico di Rocco Scotellaro, di tarantolati, di anni ‘70, di quella stagione di grandi innovazione sulle radici della tradizione.
Timisoara Pinto