martedì 16 gennaio 2018

Il cielo d'Irlanda e la salsa di mirtillo




Ho scoperto la cranberry sauce quando facevo l’Università.  Dividevo l’appartamento con Audrey, una ragazza irlandese che ha studiato e lavorato a Roma con l’Erasmus. Certo, al cinema tutti intingono il tacchino nella salsa di mirtilli. L’avevo visto in “Quel che resta del giorno” con Anthony Hopkins o in qualche serie tv americana nella scena dell’immancabile pranzo del ringraziamento. Ma il mirtillo era sapere che ogni tanto avrei ascoltato una telefonata tra una madre e una figlia nella lingua scura di Dublino.
Audrey si presentò come ci saremmo vestiti noi nella fase dark di almeno dieci anni prima, quando si ascoltavano i Cure, per capirci: anfibi, capelli nero corvino, top con bretelline, gonne lunghe, matita intorno agli occhi. Tutto rigorosamente nero. Nero con gli occhi celesti su una pelle bianchissima.

Al sole di Roma, quelle volte che Audrey usciva senza lo stucco di protezione sul viso, rientrava rossa come un peperone e le lentiggini che cercava di nascondere con uno strato di cerone bianco che manco la notte di Halloween, tradivano la vera identità, più vicina al candore bucolico di Holly Hobbie che al look lugubre e mortifero di Marylin Manson.

Il vero diavolo era la carne che non mangiava, ma a dire il vero non sono mai riuscita a capire come facesse ad andare avanti a pacchetti di patatine e bicchieri di vino rosso e coca cola, la sua miscela preferita. Infatti, mica li beveva separatamente. Insieme diceva che erano più buoni (anche perché il vinello era quello lanciato sulle tavole di mezzo mondo in confezione tetra pack).

Audrey aveva sempre una bottiglia del suo bibitone accanto al letto. Anche quella mattina quando, diretta verso il bagno, fui quasi accecata da un cono di luce divina nel corridoio. La mia coinquilina era andata a dormire lasciando la porta blindata spalancata, che spaventoso ossimoro. Meno male che nell’androne c’era Egisto, il portiere, un meraviglioso mestiere che anche a Roma purtroppo sta scomparendo.
Erano gli anni dei pub irlandesi e lei lavorava in uno di questi. Quando andavo a trovarla, riuscivo a dirle due parole solo mentre lavava i bicchieri. I bicchieri al pub si lavavano così: due secondi di immersione in una vaschetta piena di detersivo annacquato e poi capovolti a scolare sulla tovaglietta rettangolare con il logo della Guinness.
Erano gli anni dei piercing sulla lingua e dei Cranberries, ma Audrey era pazza di Eros Ramazzotti. Forse all’epoca, per gli studenti Erasmus, era l’unico approccio per iniziare a masticarla la lingua.

Mi parlava molto della sua famiglia numerosa, di un’Irlanda bigotta dove tutti spacciavano pillole del giorno dopo, ma anticoncezionali neanche a parlarne. Dove ti potevi ubriacare come se non ci fosse un domani e appena uscito dal College ti sposavi per metter su famiglia. Delle “vacanze romane” di Audrey e del cielo d’Irlanda visto da qui, ho imparato le sfumature. E anche quel nero, che ora in giro per il mondo abbracciando gli elefanti, la ragazza con gli occhi azzurri e le sopracciglia sottili non indossa più, non era proprio nero nero. Era il nero scolorito, il nero che perde dopo tanti lavaggi. Noi diremmo che diventa color melanzana, ma invece era proprio salsa di mirtillo.


Timisoara Pinto

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