Da Dylan alla musica popolare, dal vicolo della desolazione alla borgata romana. Andata e ritorno.
“E non m'importa dei quattrini
non m'importa del successo
tale difetto m'ha permesso
di evitare me stesso”
(Piero Brega “Il sorriso di un pensatore”)
Mannaggia a me (Squilibri) Uno splendido caos (Stampa Alternativa) |
Si apre con l’autobiografica “Il sorriso di un pensatore”, il nuovo album di Piero Brega e basta arrivare alla terza quartina (che ho inserito sotto il titolo di questa intervista) per capire perché abbia scelto un titolo solennemente ganzo come “Mannaggia a me”. Ad ogni modo, non posso fare a meno di chiederlo direttamente a Piero e partire da qui, in questa lunga chiacchierata da soffitta a soffitta, Attigliano-Roma.
Dopo 11 anni, un nuovo disco generoso di sentimenti per le tue radici e per tutto quello che oggi ci circonda, perché il titolo “Mannaggia a me”?
E’ un po’ un ventaglio di tante cose, c’è dentro un po’ di blues, di avanspettacolo, un po’ di Dylan probabilmente, e un po’ di musica popolare italiana, però sono canzoni che mi riguardano. Quando nella vita hai enumerato diversi fallimenti e cominci ad avere un rapporto con te stesso che è di considerazione della tua limitatezza, la cosa che ti viene in mente più spesso è “Ma guarda un po’ come diavolo sono fatto io”
E allora, come diavolo sei fatto?
Ho cercato di raccontare proprio questo, come diavolo sono fatto, e poi anche attraverso un libro di racconti brevi dal titolo “Uno splendido caos”, ho provato a fare il punto della situazione. Diciamo che ho la capacità di vedere come stanno le cose ma non per cambiarle.
Foto di Timisoara Pinto |
“Sicuramente oggi le cose sono molto confuse, c’è la morte della politica, una crisi di instabilità, c’è un’America spaccata in due, forse anche un’Italia spaccata in due, raccontare le storie, raccontare come siamo messi, è la cosa che mi interessa.
Uno splendido caos si riferisce anche a quello strano equilibrio che c’è nell’universo, dove enormi forze contrastanti si scagliano l’una contro l’altra e sembra che tutto rappresenti un’eterna disfatta, un’eterna battaglia, però, tutto quello che ci circonda ci regala delle albe e dei tramonti meravigliosi e la natura intorno a noi è sempre sorprendente, sia nei dettagli che nell’insieme, cerchiamo di non perdere il coraggio, la voglia di cambiare, la voglia di andare avanti. Credo che, in questo periodo così racchiuso dentro le case, ognuno immagini dentro di sé una specie di ripresa ideale che avverrà prima o poi, in cui finalmente si potrà dire qualcosa di nuovo, perché il mondo è comunque cambiato”.
Sei un pensatore che, malgrado tutto, sorride sempre e anche un vecchio marinaio senza mare, due brani che sono due autoritratti in parole e musica
“Un marinaio senza mare è il colmo della nostalgia, della mancanza, dell’assenza, che però si aggira per le strade senza rabbia, quasi con ironia nel vedere la sua sorte così difficile, ma nel frattempo continua a guardare le sue nuvole e a ragionare sul mondo”.
Prima hai detto “sono canzoni che mi riguardano", ma riguardano, per citare un altro brano, anche questo "tempo arido", tra disillusione e riconoscimento dei nostri limiti
“Tempo arido” è la covid-song dedicata alla solitudine di questo tempo che accomuna tutto il mondo, in cui il mare che mi manca è il mare del movimento, delle manifestazioni pubbliche, il mare che c’era quando c’era il movimento degli studenti, quando c’erano i partiti, quando c’era qualcosa per cui il tuo interlocutore, anche sconosciuto, che incontravi per la strada, era in grado di sostenere un dialogo sui massimi sistemi, perché tutti quanti stavamo agganciati ai massimi sistemi. Adesso accendi la televisione, e ti trovi in mezzo al luogo comune, anche se scritto in lettere maiuscole, ma sempre luogo comune è. Poi c’è anche “In mezzo al mare” che parla di un uomo che nuota di notte, e in questo nuotare sopra un mare colmo delle sue bugie, della sua vita mediocre, tutto sommato, recupera con l’accettazione del suo destino, un minimo di felicità”.
L’ultima canzone si chiama “centomila pensieri fuggono”, quali sono questi pensieri che ci sfuggono?
Non è una canzone sull’Alzheimer, i pensieri che ci sfuggono, che si nascondono alla nostra coscienza, sono quei pensieri che non vogliono essere sprecati per sopravvivere nell’attimo. Tutto sembra non avere tempo, il tempo è tagliato, le risposte vanno date immediatamente, forse alcuni pensieri che noi facciamo più profondi, più larghi, più sapienti, poi li nascondiamo dentro di noi, e non ce ne ricordiamo neanche conto, invece dovremmo starci attenti.
Foto di Timisoara Pinto |
Sì, è più facile apostrofare il mondo standosene belli protetti dentro una canzone popolare, dentro un documento storico. Questo implica il fatto di non prenderti nessuna responsabilità, sei soltanto l’esecutore di un modo bello, se sai farlo bene, di cantare una storia, che però è già stata raccontata.Va bene una storia antica, magari bella, magari da ricordare, ma non è quello che ti passa per la mente, nel senso che tu devi anche un po’ raccontare delle storie nuove. Succedono delle cose, senza tradire la tradizione, questo ho provato a fare in questo ultimo cd e continuerò a farlo. Naturalmente, racconto di questi tempi che sono aridi, senza politica, completamente sprecati. La canzone “Dal lago della giovinezza” parla proprio di questo, con una specie di pastore errante per l’Asia che se la prende con la luna e ho preso un po’ Leopardi a testimone di questa storia. E' un modo di rapportarsi alla divinità in una maniera pagana, se tu mi dai quello che ti chiedo, ti rispetterò, ti adorerò e ti farò delle offerte, ma se le cose non vanno come voglio io, allora ti dirò che sei una luna bugiarda, sei una luna biancastra che non sai dirmi nulla di nuovo. Ecco mi sembra che oggi ci sia questa specie di scontentezza, un atteggiamento un po’ pagano nelle preghiere in cui tutti pretendono qualcosa. Mi viene in mente quella frase di Kennedy, “Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”, e infatti alla fine la luna si rivolge a questo povero pastore e lo bacchetta in tutti i modi perché, insomma, non è questo il modo di rapportarsi con il destino. Mettiti in gioco, fai le cose, e invece, mi pare che non ci sia una gran volontà di fare le cose, soprattutto in politica, ma di rivendicare, arrabbiarsi e soprattutto di chiedere, chiedere, chiedere.
Non c'è solo Leopardi, "Nella città dolente", inizio di "Strada scura" ci porta subito a Dante. Cos'è Dante per te, che, tra l’altro, hai intitolato un tuo disco “Fuori dal Paradiso”?
Ho letto la Divina Commedia quattro volte, c’è anche Pascoli, abbiamo tanti grandi poeti, del resto, come si dice, il nostro è un Paese di santi, poeti navigatori, transmigratori… io non è che voglio essere un poeta, ma mi piace leggere questi grandi che ci hanno dato la linea. Dante diceva io scrivo in italiano perché è la lingua dell’amore, è la lingua con cui si parlavano i miei genitori quando mi hanno messo al mondo, l’italiano rappresenta l’amore.
Piero, non c’entra niente con te e con quello che stiamo discendo, ma lo sai che ora, mi hai fatto tornare in mente alcune interviste che Rino Gaetano fece in radio, e avete la stessa cadenza, la stessa romanità nella voce. Lo hai conosciuto Rino Gaetano?
No, in quel periodo frequentavo il mondo della musica popolare, anche se gli riconosco la capacità di raccontare una storia con quattro parole. ‘Il cielo è sempre più blu’ è veramente l’analisi di un dramma, Rino Gaetano scherzando, saltellando e giocando con il suo cilindro in testa, raccontava dei drammi, delle storie molto forti, però la sua capacità di sintesi era veramente un po’ troppo. Bisognava entrare nelle sue strofe, fatte di tante ripetizioni, per capire poi cosa c’era sotto. Io non è che ci sono riuscito molto, però, dalla sua popolarità, vedo che altri ci sono riusciti molto bene, e non credo che cogliessero soltanto la spensieratezza e l’allegria della parte musicale. Rino Gaetano è solo una persona che non ho incontrato, ma il suo messaggio mi è arrivato lo stesso.
Di quell’allegria, cosa condividi?
Il mio disco è musicalmente anche allegro in certi punti, anche se io allegro lo sono solo per brevi momenti, di solito sono più meditativo e introspettivo. La mia giornata è abbastanza silenziosa, il mio essere allegro, il mio scherzare, forse viene fuori solo per non affrontare il tema serio quando sono insieme agli altri, i temi profondi me li aggiusto e me li affronto per conto mio.
Tu eri più battistiano?
Battisti mi è piaciuto molto, quando l’ho visto le prime volte ho detto, questo ragazzo si farà. Non mi identifico neanche con lui, anche se ha detto tanto e quel “Signore, chiedo scusa anche a lei”, ne è un esempio. Poi, all’epoca se uno non si dichiarava apertamente comunista o compagno, automaticamente veniva sbattuto dall’altra parte. Ora, probabilmente, lui era soltanto un individualista come lo siamo tutti, però c’è da dire la verità: nei suoi pezzi mi pare ci siano soltanto delle storie private, c’è un poca società .
Però i testi li scriveva Mogol…Foto di Alberto Marchetti
Sì indubbiamente ma uno non canta una cosa che non condivide. Mogol e Battisti hanno girato l’Italia insieme a cavallo, erano culo e camicia, l’uno valeva per l’altro.
E oggi ti piace il rap, almeno così hai scritto da qualche parte
Il rap in generale mi piace tutto, preferisco quello americano perché ha delle interruzioni, dei punti di stop, delle ripartenze ritmiche basate sul suono e sulla ritmica delle parole che mi interessa molto. Anche in Italia ci sono dei geni perché una volta ho visto una gara tra rappisti che improvvisavano ed era veramente molto interessante, anzi addirittura li ho invidiati, ma in realtà molte volte, specie nel rap più di successo, incontro solo quei versetti che corredavano le illustrazioni del Corriere dei Piccoli, “il signor Bonaventura… I veri maestri sono negli Stati Uniti.
Musicista e architetto, conosci e interpreti il linguaggio delle città, il tessuto urbano con cui abbiamo a che fare quotidianamente, le stratificazioni territoriali e sociali che si traducono in versi. Piero, il tuo modo di leggere e interpretare i luoghi da architetto, ha influito sul tuo "folk urbano"?
Sicuramente. Io non avevo mai fatto il punto su questa cosa, anche se spesso ad Architettura me lo chiedevano, ma io non trovavo nessuna relazione, invece in tarda età, mi sono reso conto che la musica e l’architettura hanno un legame strettissimo nel loro elemento più importante, la struttura. In particolare, Roma per me è il posto che ho girato in motorino da sempre, forse la conosco come potrebbe conoscerla un tassinaro, è chiaro che ha influenzato tantissimo le parole delle mie canzoni. Roma è un libro di pietra, ha nelle sue stratificazioni, se le sai leggere, tutta la sua storia. Adesso abito in Umbria, sono come un antico romano che sta in villa, ma Roma è dentro di me, io sono Roma.
“San Basilio”, “Mannaggia a me”, è ancora Roma lo sfondo di tante storie cantate, com’è Piero Brega nel 1975
cambiata dagli anni 70?
Forse sono solo i ricordi giovanili che soffondono di una luce dorata gli anni 70, però mi sembra che allora ci fosse più una mobilità intellettuale, una capacità di capirsi, una volontà di parlare con gli altri, quindi c’era più dialogo, interazione, c’era più interesse per quello che diceva un altro, adesso siamo tutti un po’ più soli, il nostro vicino non è più lo spunto per un dialogo, ma forse è uno sguardo di invidia, se non di odio. C’era una canzone di Enzo Del Re su San Basilio, suonava la sedia e raccontava di un’occupazione di case, interventi della polizia. Poi ci sono tornato una volta con Alessandro Portelli, quando era assessore, mi ero portato la chitarra prima del suo intervento, voglio molto bene a Portelli e in quel momento eravamo legatissimi, siamo arrivati a San Basilio e in quella piazza c’erano cinque persone, io mi ricordo che negli anni ‘70 quando c’era il PCI che parlava in piazza, c’era l’enorme folla, le migliaia. Rimpiango un po’ quella cosa lì, augurandomi che possa succedere di nuovo, perché non possiamo tirare avanti per sempre come stiamo, su questo non c’è dubbio.
“Mannaggia a me”, oltre al titolo del cd, è anche la terza canzone dell’album.
“C’è un riferimento abbastanza fisso nel mio disco, che è il percorso che facciamo seguendo quel barbone felice della prima canzone, quello che sorride malgrado il suo stato di povertà assoluta, che decide di abbandonare la società nel suo complesso e ci porta in giro per diverse stazioni. Ci si presentano prima dei barboni che litigano sotto la stazione Termini e uno che scaglia tutti i suoi anatemi, li scaglia, in realtà, anche contro di me, che sono lì a guardare con occhi sgranati e queste maledizioni le sento anche addosso a me, perché se lui sta in quella condizione è anche colpa mia.
Tornando a “San Basilio”, già inserita in “Come li viandanti”, album del 2004 che svelò il Piero Brega cantautore, la riproponi qui con un nuovo arrangiamento e la band al completo
Mi interessa molto questo modo nuovo di raccontare le storie, in una forma quasi di rock, un po’ americana, con l’ausilio di una nuova band, un sestetto clamoroso.
Ti accompagnano, infatti, Oretta Orengo all’oboe, corno inglese e canto, Ludovico Piccinini alle chitarre e charango, Emanuele Marzi al basso, Piero Fortezza alla batteria, Luciano Francisci alla fisarmonica. Con Piccinini, da qualche anno, porti in giro il concerto su Bob Dylan, di cui hai tradotto molte canzoni. Qual è stato l’impatto di Bob Dylan per i cantautori della tua generazione?
In un’epoca di grandi gruppi elettrici e spettacoli musicali con decibel esagerati, viene fuori questo uomo né alto, né basso, né brutto, né bello, che canta con voce che viene, lì per lì, dichiarata voce da ubriaco e intona delle ballate, delle storie americane che sembrano portate avanti da un cowboy, con una semplicissima chitarra acustica e un’armonica a bocca. Le prime canzoni di Dylan parlano di un mondo semplice, interessante che ci incuriosisce. In una classe di 25 studenti, potevi trovarne la metà che suonavano la chitarra e tutti che volevano imparare il fingerpicking.
Piero Brega e Oretta Orengo, coppia straordinaria sul palco e nella vita |
E per te, nella tua vita, cosa ha rappresentato l’arrivo di questo personaggio fuori dagli schemi?
Sarà stata l’estate del ’66 o ’67, a Fano, c’erano le comitive al mare, nascevano amori estivi, dei flirt brevi, ma molti intensi. Conobbi Veronica, una ragazza francese, figlia di un romano che lavorava al Consolato a Parigi. Fu lei a regalarmi il 45 giri di ‘Desolation row’, e proprio lì nel porto di Fano, Veronica arriva una sera con un mangianastri, lo poggia sulla tolda di un vecchio peschereccio in disarmo, e ci mettiamo ballare su questa canzone. Non capivo il testo, né mi interessava, in quel momento tutto era tranne che quel mondo assurdo di una strada malfamata, dove accade una rappresentazione terribile. Più tardi mi ci sono avvicinato con l’intento di studiarlo. Naturalmente sono partito dalla bandiera iniziale, ‘Blowin’ in the wind’, che parlava di un cannone che non doveva più sparare colpi, di una colomba che doveva attraversare il mare e di un vento di liberazione che soffiava. Il fatto di dirlo così e non in pompa magna come i grandi gruppi rock, dava l’idea, a noi studenti, che forse, molto semplicemente, potevamo rimontare il mondo con una chitarra e un’armonica, non c’era più il bisogno di comportarci in un certo modo, bastava dire quello che avevamo in testa e questo è il grande merito di Dylan. Poi c’era un Dylan diverso, quello della cosiddetta seconda ondata, dagli anni 80 in poi, quello che si interessa all’occultismo, alla politica internazionale, che spazia imperturbabilmente in tutte le filosofie mondiali, ma trovati i limiti di tutte le ideologie, Dylan a un cero punto dice “Io credo nelle canzoni, l’ultima forma di saggezza dell’umanità”, alla fine, l’unica cosa che rimane in piedi è la canzone popolare, il distillato della coscienza umana è la canzone popolare.
Timisoara Pinto
Foto di Cristina Canali |