La tentazione di trovare un nesso tra il clima di questa edizione del
Festival e i mutamenti storico-sociali che hanno portato il Papa alle
dimissioni, è forte.
Le antenne Tese di Elio hanno captato e messo il tutto in rima con un tempismo eccezionale, ma è ancora presto per fare bilanci di questo tipo, almeno finché il cosiddetto “orizzonte storico” non si sarà allontanato un po’.
Sicuramente la conduzione Fazio-Littizzetto ha avuto il suo peso specifico e il gruppo di autori ha fatto la differenza con le edizioni del passato ovattate, tutte inserite e chiuse nell’autoreferenzialità televisiva poco disposte ad uscire dai soliti binari. Certo, Sanremo resta una grande cerimonia dei media e, soprattutto, una gara, con una griglia di partenza piuttosto vincolante. Spetta al gruppo di lavoro, allo stile e alla personalità del conduttore/direttore artistico svincolarlo dalla sua baudità. Questo, credo, abbia fatto Fazio, più abituato ad una quotidianità televisiva che si nutre di realtà, di letture e lettura della realtà e non va a caccia di altri mondi impossibili per anestetizzarla.
Differenza di intendere il Varietà: non un mattatore che esibisce le due bonazze del momento, ma un cavalier cortese che fa calzare alla Littizzetto la scarpetta di Cenerentola, mentre si discute di canzone d’autore, di pianoforte, di musica colta e popolare, di violenza sulle donne, del bene fra gli uomini, di amore senza distinzione di sesso.
Le antenne Tese di Elio hanno captato e messo il tutto in rima con un tempismo eccezionale, ma è ancora presto per fare bilanci di questo tipo, almeno finché il cosiddetto “orizzonte storico” non si sarà allontanato un po’.
Sicuramente la conduzione Fazio-Littizzetto ha avuto il suo peso specifico e il gruppo di autori ha fatto la differenza con le edizioni del passato ovattate, tutte inserite e chiuse nell’autoreferenzialità televisiva poco disposte ad uscire dai soliti binari. Certo, Sanremo resta una grande cerimonia dei media e, soprattutto, una gara, con una griglia di partenza piuttosto vincolante. Spetta al gruppo di lavoro, allo stile e alla personalità del conduttore/direttore artistico svincolarlo dalla sua baudità. Questo, credo, abbia fatto Fazio, più abituato ad una quotidianità televisiva che si nutre di realtà, di letture e lettura della realtà e non va a caccia di altri mondi impossibili per anestetizzarla.
Differenza di intendere il Varietà: non un mattatore che esibisce le due bonazze del momento, ma un cavalier cortese che fa calzare alla Littizzetto la scarpetta di Cenerentola, mentre si discute di canzone d’autore, di pianoforte, di musica colta e popolare, di violenza sulle donne, del bene fra gli uomini, di amore senza distinzione di sesso.
Se un nesso c’è, potremmo dire che, come la Chiesa, anche il festival si laicizza. Il Vicario di Cristo in terra, rinunciando all’investitura divina, si svincola dalla sacralità del suo ruolo, del suo sottostare alla volontà divina che lo vuole lì, indiscusso, sul suo scranno. Ogni futuro Papa sarà lì per volere di altri uomini, per nomina politica, editoriale, come dir si voglia, né più né meno del direttore artistico di Sanremo.
Un atto rivoluzionario – qualcuno ha
già detto – quello di Benedetto XVI. Una rivoluzione laica, aggiungo, quella di
cui si mormora anche ad altri piani e in altri strati della società, quella che
fa sparire le piume dello struzzo da un programma così nazionalpopolare come il
Festival della Canzone ed invita a non abbassare mai la testa. Il movimento di
Ingroia, ad esempio, ha intuito questo spazio di recupero, ma avrebbe dovuto
più coraggiosamente chiamare il suo impegno “Rivoluzione laica”, non “civile”,
e non per una questione di ossimoro (figura retorica di tutto rispetto), tra
due termini peraltro nemmeno così in contraddizione come può sembrare, ma
perché la parola, l’aggettivo del momento è “laica”. “Rivoluzione laica” meglio
esprimerebbe il sentimento di chi non sa a quale movimento votarsi alle
prossime elezioni. Rivoluzione laica è quella che mi fa sintonizzare con alcuni
artisti e argomenti toccati da questo Sanremo, Elio su tutti, che nella canzone
eliminata la prima sera, “Dannati forever”, oltre a sintetizzare il controverso
rapporto tra gli uomini e la fede (cantando “pa, pa-pa-pa, pa-pa-pazzesco”), con il
suo travestimento e cuoricini rossi cuciti sul risvolto delle maniche, allude
all’amore per l’abito talare o con l’abito talare. Il verso capolavoro è: “All’inferno,
all’inferno! Co co co come la Reggio Calabria – Salerno” dove il
semplice capovolgimento del nome della famigerata autostrada svela
l’inquietantissima rima.
Per me gli Elii dovrebbero vincere, come nel 1996 con “La terra dei cachi”, ma allora arrivarono secondi dopo Ron e Tosca: “Se vinciamo noi, è chiaro che il Festival è truccato, se perdiamo è ovvio che il Festival è truccato”, disse allora il cantante più truccato. Trucchi musicali molto istruttivi e “La canzone mononota” dovrebbe andare a sostituire nell’immaginario sanremese delle scuole dell’infanzia il primato di Povia. Degno di nota l’esilarante finale, a proposito di laico coraggio: “C’è poi il samba di una nota sola / Ma, se ascolti attentamente, dopo un po’ cambia: / Jobim non ha avuto le palle di perseguire un obiettivo / Non ci ha creduto fino in fondo / Invece / Noi / Sì”. L’unico limite del pezzo è che il primo ascolto lo brucia e lo fissa per sempre in quegli unici tre minuti performativi e da canzone “mononota” diventa canzone “monouso”. Perso il gioco a sorpresa, svelato il trucco che ti costringe a seguire come si dipana e dove va parare la canzone, al secondo ascolto è già calata tutta la tensione. Resta però uno straordinario esempio di bravura e di passione per la musica.
Abbiamo un festival che per metà punta sugli autori già consacrati, per
metà sugli interpreti, usciti da quelle scuole televisive che a furia di
puntare sugli interpreti creeranno una generazione di cantanti pirandellianamente in cerca di
autore. Tutte produzioni importanti, a cui molti cantautori di qualità non
riescono ad avere accesso, con un unico contentino per i Marta sui Tubi, intesi
come “quota indie” e “indipendente” che comincia ad avere una sua fetta
canonica della torta festivaliera. Tra i due pezzi della band siciliana,
preferivo “Dispari”, un titolo che non può non farmi venire in mente il primo fondamentale
disco di Pino Marino.
Quest’anno, però, si è instaurato una specie di governo ombra. Credo
che, sul piano della gara, ci sia un doppio livello di lettura, ovvero una gara
parallela fra gli autori. Zampaglione contro Bianconi dei Baustelle, Servillo e
Mesolella degli Avion contro Enzo Gragnaniello, la coppia Nannini-Pacifico,
Giuliano Sangiorgi addirittura contro se stesso. Molti voti a favore dell’una o
dell’altra canzone che ogni artista ha presentato sono stati determinati
sicuramente dalla firma più glamour in questo momento. Zampaglione ha scritto
una canzone tiromancata e sanremese per Chiara, che l’ha caricata di inutile
enfasi, più scontata quella di Bianconi che ci consegna la vincitrice di X
Factor in stile Zanicchi anni 90.
In generale, abbiamo ascoltato pezzi vintage, Malika dall’eleganza anni
’60, evoca la Mina delle mani che ricamano la voce alle prese con un classico
di Aznavour, Simone Cristicchi, con una filastrocca che poteva benissimo servire
da gag ai Gufi e ad Alberto Sordi. Sarò ossessionata dalle citazioni, ma il
frac con fiore all’occhiello a Sanremo fa tanto Rino Gaetano e Max Gazzè è
notoriamente un grande ammiratore del cantautore calabro-romano. Solo che la
canzone più che a Gianna, ammicca a Raffaella (Carrà).
Antonio Maggio |
Un applauso a Renzo
Rubino, il riscatto di Umberto Bindi mezzo secolo dopo, un altro al vincitore
fra i Giovani, Antonio Maggio, che parla e si muove, addirittura fa una leggera
rotazione della testa, come Nicola Arigliano. Sarà che anche lui, come il suo
illustre conterraneo scomparso, arriva da Squinzano, provincia di Lecce. Non si
è persa occasione, tra cantanti, temi, omaggi, gente comune ed ospiti
internazionali, per parlare finalmente di omosessualità senza ipocrisie,
cercando di stare al passo anche con altre interfacce mediatiche come i social nework.
Quando seguivo da inviata il festival potevo fare il pelo e il contropelo in
virtù di 8 giorni di vero e proprio ritiro, ma anche adesso vado a caccia di
dettagli che meriterebbero un’evidenza maggiore. Ad esempio, è possibile mettere
nero su bianco che il 2013 è il primo anno in cui i selezionati tra i giovani
sono tutti anche autori delle proprie canzoni. La tendenza è degli ultimi anni,
ma questa volta, sotto questo profilo, non c’è più nessun concorrente
sprovveduto. Ottime le referenze dei Blastema, prodotti dalle signore De Andrè,
Dori e Luvi, ma suonano davvero, il testo è poetico e hanno fatto un gran figurone. Insieme
a Nardinocchi, addirittura eliminato prima dei quarti di finale, sono quelli
che possono avere vita artistica indipendentemente dall’esito festivaliero. Dimenticavo
Silvestri: tanto era trascurabile la canzone eliminata, quanto nobile e magniloquente
“A bocca chiusa”. Protagonista, quest’anno, il pianoforte. Un’ideale consolazione
per il Ratzinger musicista, ma lo seguirà il Papa il festival? Gli interesserà il
verdetto finale?