Ha inciso tre dischi ma non era un musicista, giocava con l’arte senza un compare e, col passare degli anni, la voce dell’ultimo Remo di Roma somigliava sempre di più a quella del suo mito: il re del jazz Louis Armstrong.
Poeta situazionista, attore poetico, pittore e ancor prima scultore che del congedo senza possibilità d’appello aveva fatto la sua espressione artistica più emblematica.
Qualche giorno fa è “inspiegabilmente morto” Remo Remotti. Il virgolettato è l’incipit dell’Amaca di Michele Serra, che in un solo avverbio condensa una vita, quella del coloratissimo Remo, catalizzatore e dissipatore di un’altalenante stagione durata circa un secolo. Eppure una spiegazione io ce l’avrei: Remo ha deciso di andarsene perché era l’unico modo per raggiungere finalmente Laura Antonelli.
Quando ho saputo della sua scomparsa, mi sono ricordata di questa intervista del 2008, della sua vita da pittore e scultore, ignota ai più, dei suoi sette anni in Perù (e non potevano che essere sette). Gli anni ’60 con la distinzione tra artisti figurativi e non figurativi, della sua frase: “ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia”. Il tutto partendo da un ritornello…
Una canzone che avresti voluto scrivere?
“Nel blu dipinto di blu”, un’esaltazione della vita, ci trovo un riferimento al “blu Klein”. Yves Klein è passato alla storia dell’arte per il suo blu metallico a cui forse fa riferimento Modugno.
Dove ti trovavi nel 1958, quando la canzone italiana volava con Modugno?
Uscivo dal manicomio in Perù, dove ero stato rinchiuso per una sciocchezza. Lì dentro mi procuravano abitualmente il coma insulinico. Dopo sette anni di Perù sono tornato a Roma distrutto, disoccupato, rovinato. Per fortuna, ho avuto solo due periodi così devastanti nella mia vita. Però, come tutti gli scorpioni dominati da Marte, grandi combattenti dello zodiaco, anche quella volta mi sono rialzato dalle ceneri. Fondamentale è stato l’aiuto di mia moglie, la prima, Luisa Loy, la sorella di Nanni. Sì perché io ho sposato due “Luisa”, Luisa Loy negli anni Sessanta e Luisa Pistoia, negli anni Ottanta.
Hai mai provato a suonare uno strumento?
Hai messo il dito nella piaga. Avrei pagato chissà quanto per poter suonare in un’orchestra jazz. Ho comprato per ben due volte una tromba. Sapevo suonare “La strada” di Rota e basta. Mio padre era un violinista, mia madre si era diplomata in pianoforte a “Santa Cecilia”, ma i miei genitori non mi hanno insegnato nulla. La colpa comunque è mia. La musica è il massimo, la tromba il mio sogno. Quando mi chiedono se per caso abbia fatto anche il musicista nella vita, rispondo: non ho avuto questo onore, come diceva Chaplin quando gli chiedevano se fosse ebreo. Un giorno, se guadagnerò un po’ di soldi, pagherò uno dei miei amici musicisti per farmi inserire in un’orchestra. Potrei chiederlo a Massimo Nunzi, farò finta di suonare, solo per il gusto di provare quell’emozione almeno una volta.
E le tue trombe dove sono finite?
Una l’ho regalata a Gianni Saint Just, perché era parente della mia prima moglie. La vita è fatta così, bisogna dare per ricevere. Non mi pento di averla regalata, anche perché poi, parliamoci chiaro, per suonare la tromba bisogna esercitarsi otto ore al giorno per quindici anni.
Per fare le previsioni dell’oroscopo quanto ci vuole?
Il tuo ricordo più forte legato alla radio riguarda un annuncio…
Ero a piazza Quadrata, viale Liegi, in un bar con la radio accesa. Ascoltammo allibiti Mussolini che diceva dal Balcone di piazza Venezia: “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”. Sessanta milioni di morti lo stavano aspettando. Hai capito in che razza di mondo siamo cresciuti noi?
Però successivamente hai avuto modo di riabilitare la Germania, che in qualche modo aveva a che fare con questa dichiarazione, e di apprezzarla sotto altri aspetti…
Avevo lavorato con il pittore Emilio Vedova, sono arrivato a Berlino con una borsa di studio alla fine del ’67, alla vigilia del cosiddetto ’68 berlinese. Un periodo bellissimo che ho vissuto pienamente insieme alla mia prima moglie, la Loy.
Purtroppo poi mi sono innamorato di una tedesca e per la seconda volta in vita mia, non ultima, seconda, mi sono spogliato nudo in mezzo alla strada, sommerso dai sensi di colpa. Una macchina dei pompieri mi ha prelevato e mi ha portato nella clinica di Spandau,, a pochi metri di distanza dal carcere in cui era detenuto il braccio destro di Hitler, Rudolf Hess. Anche lui si occupava di segni zodiacali. Stranamente nel nazismo c’era un particolare interesse per l’astrologia. Poi, a novant’anni, Hess ha pensato bene di impiccarsi. Se l’avesse fatto prima sarebbe stato meglio.
Il disco a cui sei più legato è uscito proprio alla fine di quell’estate: “Hey Jude” dei Beatles.
Gioventù è sinonimo di stupidaggini che si fanno e di sofferenze. Per stare bene devi avere almeno settanta, ottanta anni, allora sì che stai come un Papa, perché fai le stesse cose che facevi a trenta con la differenza che lei fai bene, tranquillo e sereno, senza commettere grandi errori. Ero nell’atelier con questa ragazza per cui persi la testa e proprio mentre ci guardavano negli occhi, la radio trasmetteva “Hey Jude”.
Remo Remotti, senza diventare un musicista, ha inciso tre cd e tutti dopo gli 80 anni.
Il momento migliore anche per la coppia: è l’amore più bello in senso totale, te lo dice il sottoscritto che è un addetto ai lavori. Invece, il grande Tyrone Power, poverino, a 44 era già morto, per non parlare di tanti altri.
Anche tante rockstar sono scomparse troppo presto.
Rino Gaetano, a trent'anni. Lasciamo perdere.
L’hai conosciuto?
No, ma semplicemente perché non si può seguire tutto. Io seguivo più che altro, il cinema, la pittura, il teatro. Però l’ho sentito. Come fai a non prestare l’orecchio a un tizio che dice “Nuntereggae più”? Ma vuoi sapere, invece, uno dei cantanti che più amo, di cui non abbiamo ancora parlato? E’ Leonard Cohen.
Poeta pittore, avete molte cose in comune… forse solo un po’ più mistico di te.
E’ stato addirittura chiuso in un convento per molti anni. Nella sua voce c’è la dolcezza e c’è la spiritualità. Io faccio la meditazione tutti i giorni. Vicino al mio letto ho il suo cd, mi metto lì in raccoglimento e ascolto “Tower of song” quando dice “Il mio destino è questo. Io sono nato con il dono di una voce d’oro”. Poi lo ascoltavo all’epoca di “Jesus was a sailor” negli anni’70 perché ero scappato da una tedesca che mi menava. Mi sono rifugiato in casa di amici a Monaco di Baviera e lì c’era questo disco che mandavo a ripetizione, mi piaceva da morire.
L’ultimo disco che hai comprato?
Me l’ha ordinato mia moglie: Bruce Springsteen. Devi sapere che io a casa mia conto molto poco. Stamane avevo indossato un paio di calzoni mimetici, ma Luisa mi ha detto: “se non te li levi, non ti faccio uscire”, ed io, come un bambino di sette anni, mi sono cambiato e ho avuto il permesso di varcare la soglia con un paio di calzoni normali, non mimetici.
Tra i libri da consigliare hai scelto “Consapevolezza” di Osho. Perché?
E’ stato un grandissimo. Potrei paragonarlo senza paura di sbagliare a Freid, Jung, un grande cervello, un maestro spirituale che ci ha lasciato centinaia di libri, uno più bello dell’altro, che io leggo sempre con grande interesse.
Perché del Remo Remotti pittore si parla poco?
Il mio primo grande amore e la mia prima espressione artistica. Io ho cominciato tardi, a 35 anni, a quell’età Masaccio, Umberto Boccioni, Yves Klein, Piero Manzoni, Pino Pascali erano già morti. In qualsiasi campo dell’arte per concludere qualcosa devi avere un mercante alle spalle. Io sono nato nel cuore della borghesia romana. Per fortuna, non ho mai aspirato ai soldi, al denaro o al successo visto con il denaro. Ho scelto, si fa per dire, la miseria e l’umiltà che coincidono con la libertà d’azione. In tutti i campi, però, ci sono le mode e certi andazzi legati all’intervento del signor x o del signor y. Ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia.
Le tue poesie quando sono arrivate?
Devo essere molto riconoscente a Maurizio Costanzo e al suo braccio destro Roberto Silvestri che, nel 1984, mi fecero fare “Mamma Roma addio” nel programma tv “Fascination”, prima ancora del “Maurizio Costanzo Show”. Piacque tanto la mia performance che mi chiesero di farne una a settimana “Me ne vado da Milano” “Me ne vado da Napoli” e via di seguito. Così sono nate le mie poesie.
Tornando alla pittura, te ne sei andato anche da piazza del Popolo?
Non mi parlare di questo. Noi a fare la vita mondana, a prendere contatti con la nobiltà romana di piazza del Popolo, non ci andavamo. E’ per questo che ci sono tanti pittori che sono rimasti sconosciuti come Tonino de Laurentis, Emiliano Tolve e altri. Non è che ci fossero solo Cunelli o Franco Angeli. Io non penso affatto che Angeli sia stato un grande pittore, ho le mie riserve anche su Schifano, nonostante abbia visto ultimamente una sua bellissima mostra.
Il discorso è complicato. Esiste l’ufficialità ed esiste l’underground. Ci sono stati dei pittori come Giuseppe Uncini che sono stati veramente dei grandi. Voglio spiegarmi meglio: Mario Schifano, che sia stato un pittore giovane, molto dotato, non ci piove. C’è stato un momento di grande creatività, ci sono stati dei pittori in tutto il mondo che si sono inventati un linguaggio. Il più grande è stato Marcell Duchamp, ma questi romani di Piazza del Popolo, a parte qualche eccezione, hanno scopiazzato la pop art americana, tanto che la loro opera viene definita pop art italiana.
Dove è possibile vedere le tue opere?
La Galleria Giraldi di Livorno, grazie a Dio, ha comprato negli anni molte mie cose, togliendomi dalla fame. Una mia opera è stata acquistata dalla direttrice della galleria d’Arte Moderna, Palma Bucarelli, un doppio cubo è esposto nella Galleria d’Arte comunale a Roma in via Capo le Case, a Berlino ho venduto qualche pezzo importante in due Musei. Per fortuna, aggiungo io, perché se fossi diventato un pittore importante sarebbe stato difficile fare l’attore. Te lo vedi il signor Guttuso che recita con Marco Bellocchio? Ho lavorato con gioia, interesse e ingoiando qualche boccone amaro per vent’anni e passa. Però poi sono uscito dal ghetto della pittura e ho vissuto nel campo del cinema, dell’editoria, del teatro.
Qual era la tua scuola di riferimento?
A Milano c’erano Castellani, Manzoni, Sordini, mentre a Roma, Giuseppe Uncini, il Gruppo Uno, Tonino De Laurentis, Gastone Novelli, Eugenio Santoro, Guido Strazza, Marcolino Gandini.
Con Attilio Pierelli Pizzo Greco, Lorenzini, Icaro, Gino Marotta, avevo formato il gruppo “La nuova scultura italiana”. Purtroppo negli anni ’60 c’era questa distinzione tra artisti figurativi e non figurativi. Io personalmente militavo tra gli astratti.
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