A
Frosinone, dove si era trasferito negli ultimi anni, lo chiamavano
ancora signor Ghezzi. I suoi successi, “Voglio stare con te”, “Tu
nella mia vita”, “Noi due per sempre”, “Un
corpo un’anima”, non erano semplici promesse da marines...
Nel Gennaio ’75, l’Italia
che non voleva il divorzio si prende la sua
rivincita con il ritornello “e non ci lasceremo mai…”, anche
se a cantarlo è la prima coppia mista dello spettacolo italiano,
Wess e Dori Ghezzi.
(intervista con Wess pubblicata su “Musica Leggera” - Luglio/Agosto 2009)
Ripartiamo
dall’America. Dove ci troviamo esattamente?
North Caroline, mi hanno
appena regalato una piccola tromba. Andare a scuola per me
significava entrare nella classe di musica, tutto il resto non mi
interessava. Così, mi sono sempre occupato della banda, un lavoro
molto complesso perché in America ogni scuola ha la sua squadra di
baseball e quando la squadra si muove, si sposta anche tutta la banda
musicale. 130 elementi che, insieme alle majorette, hanno il compito
di occupare lo spazio tra il primo e il secondo tempo, invadendo il
campo con uno spettacolo vero e proprio. Io all’epoca suonavo già
tutti i fiati, sapevo leggere le parti e fu facile per me diventare
il “drum major” dell’orchestra.
Il direttore?
Sì, nelle bande si chiama
così perché si presume che le bande siano principalmente basate
sulle percussioni. Nella mia banda c’erano 12 batterie e 2
grancasse, oltre naturalmente a tutti gli altri strumenti.
Quanti anni avevi?
Ho seguito la banda per un
paio d’anni circa, fino a 16 anni e mezzo. Sai, in America a 15
anni si è grandi. Per fortuna ho studiato anche un po’ il francese
e ho fatto bene, anche se allora non potevo di certo immaginare che
sarei finito in Francia.
Una fermata intermedia
prima del grande sbarco nel Lazio, come mai?
Porto di Norfolk,
Virginia, Stati Uniti. Facevo il militare alla Naval Station Norfolk,
una delle più grandi basi navali del mondo. E’ lì che ho
conosciuto Rocky Roberts e i nostri Airedales. Arruolati come
marines siamo diventati abili musicisti: la sera scendevamo
dall’Independence, la nostra enorme nave, e andavamo a suonare sul
lungomare di Norfolk. Poi è successo che l’ufficiale del nostro
reparto, Doug Fowlkes, è diventato il nostro manager. Fowlkes aveva
sposato una donna di Cannes, così, scaduto il nostro tempo sulla
nave, decidemmo di scendere tutti insieme sulla costa francese. Siamo
rimasti un mese e mezzo, prima di trasferirci stabilmente a Parigi.
Quanto tempo siete
rimasti in Francia?
Due anni. La moglie di
Fowlkes è stata velocissima a far conoscere Rocky al pubblico
francese e noi con lui.
Perché Airedales? Cosa
vuol dire?
Diavoli dell’aria. In
fondo ci eravamo conosciuti su una portaerei.
E poi capitan Fowlkes
ha virato dritto verso l’Italia.
Rocky è approdato alla
RCA di Roma e ha avuto successo anche qui. Fowlkes faceva spalancare
tutte le porte, è stato anche il manager di Barry White. Quando
Fowlkes si è ammalato, Barry l’ha fatto ricoverare e l’ha
assistito fino alla morte. Peccato che quando è morto Barry non
c’era nessuno accanto a lui.
Eri molto amico di
Barry White?
Con Fowlkes l’abbiamo
portato una settimana alla Bussola, poi abbiamo fatto Sanremo
insieme, alla fine eravamo come due fratelli. Viaggiava sempre con
sua moglie Glodean, con la bambina e con sua madre. Barry era una
persona pura. Di solito gli artisti hanno la puzza sotto il naso e
sono viziati, lui invece non beveva e non fumava, forse mangiava un
po’ troppo, questo sì. Abbiamo anche giocato a carte e Barry
poteva maneggiare rotoli di 100 dollari come fossero 1000 lire.
Questa cosa mi ha molto impressionato perché diventare famosi in
America vuol dire soldi.
In Francia avrai
conosciuto tutti i grandi artisti di quegli anni.
Ho lavorato con tutti.
Nelle tournée noi facevamo il primo tempo. Una volta ho suonato il
basso pure per Aznavour. Finito il nostro set, toccava a lui, ma il
suo bassista non arrivava. Così mi sono messo ad accompagnarlo,
nascosto dalla tenda del sipario, con le parti in mano. L’Olympia
l’abbiamo fatta con i Rolling Stones. In quel caso c’era il
problema di riempire l’enorme sala con il suono. Allora non si
usavano impianti, un gruppo non veniva quasi mai amplificato, solo il
cantante aveva il microfono, al massimo c’era un altro microfono
per i fiati. Quello che usciva fuori, usciva fuori. Invece un teatro
come quello andava microfonato tutto. Allora che ho fatto: ho preso
due amplificatori per il basso, due Ampeg americani, e li ho messi
uno a destra e uno a sinistra, ottenendo una profondità e un pieno
di suono migliore degli Stones che di ampli ne avevano 12, ma intanto
si chiedevano come avessi fatto. Loro usavano il famoso Vox,
l’effetto strillante resta strillante, non dai maggiore potenza:
amplifichi la mentalità, diventa solo più rumoroso. Jimi Hendrix
voleva 16 Marshall solo per lui, per la sua chitarra. Infatti un
giorno a Milano abbiamo cominciato tardi perché ne aveva contati
quindici e se non arrivava anche l’ultimo amplificatore Hendrix non
suonava.
Quando hai cominciato a
cantare?
Durante le serate, quando
Rocky era stanco, io facevo due o tre canzoni per farlo riposare.
E ad un certo punto sei
uscito dal gruppo per intraprendere una carriera solista.
Ci siamo separati, ma è
stata una cosa decisa a tavolino. Il nostro manager si accorse di
avere due artisti ben distinti e che era un peccato accontentarsi del
gruppo così come aveva funzionato fino a quel momento.
E Rocky come la prese?
Forse gli ha dato
fastidio, non ha più voluto continuare con il gruppo, diceva che ne
aveva trovato uno migliore, ma io so che non era così. Il gruppo di
Rocky eravamo noi, ecco perché poi io sono andato avanti con gli
Airedales.
Però siete sempre
rimasti amici, non è così?
Fino alla fine. Io ho una
casa a Fregene, lui era in affitto e stava sempre da me.
Quando Rocky è morto, ha
portato via con sé una parte della mia vita. Noi siamo sempre stati
insieme dall’inizio, seguivo tutte le sue cose, ho scritto tutto
per lui, gli arrangiamenti li facevo come voleva lui, sono diventato
il suo capogruppo perché ero quello di cui si fidava di più. Il suo
successo dipendeva da come preparavo la band, se sbagliavo io
sbagliava anche lui. Abbiamo condiviso tantissime cose, basti pensare
a “Stasera mi butto”. Sul retro del 45 giri c’era un mio pezzo,
“Just because of you”, quindi quando siamo stati premiati per 1
milione e mezzo di copie, ho preso anch’io lo stesso premio.
E dalla RCA perché sei
passato alla Durium?
Qui subentra un altro
grande amore per me, Little Tony. Io frequentavo Tony molto spesso
per via della sua gelosia. Era molto geloso della moglie. Mi spiego.
In quel periodo a Roma suonavo al Club 84 e Tony veniva giù a locale
per spiare la sua signora, convinto di trovarla lì con qualcun
altro. Lo vedevo appostato inutilmente nel suo angoletto e alla fine
siamo diventati amici. Mi veniva a prendere tutti i giorni per
portarmi in sala. Ho lavorato al missaggio di “Cuore matto” , ho
tirato fuori quel basso e l’ho fatto suonare a modo mio. Un giorno
Tony mi procura un incontro-audizione con Elisabel Mintanjan, la
moglie del presidente della Durium, Krikor Mintanjan, di origini
armene. Il contratto è praticamente già pronto, lascio la RCA e
porto via anche Rocky, nonostante loro mi avessero sentito cantare
nell’album di Rocky e mi avevano già proposto un progetto solista.
Lucio Dalla doveva scrivere dei pezzi per me e di quelle canzoni
erano già partiti i provini. Devono avermi odiato per questo.
Il tuo primo Lp Durium
è “The sound of soul” del 1967. Cosa conteneva?
Il mio repertorio, qualche
cover, ma soprattutto i miei brani. Dove vedi Fowlkes-Johnson-King,
era un accordo che avevamo preso per dare un contributo al nostro
manager. Jessie King era l’organista e poi c’ero io che scrivevo
quasi tutto da solo. Il primo pezzo dell’album è “Chapel of
dreams” canzone del 1958 portata al successo dai Dubs, un gruppo
vocale doo wop, che poi sarebbe diventata, con il testo italiano di
Giorgio Calabrese, “I miei giorni felici”. Fu il produttore
Giampiero Scussel a suggerirmi di cantarla in italiano, devo
sicuramente a lui questa intuizione, anche se io non ho mai amato
questa canzone.
E perché?
La odiavo e ancora oggi
non la sopporto, ma dopo tanti anni se c’è
un pezzo con cui sono
riconosciuto è proprio “I miei giorni felici”. Questo dimostra
il potere della discografia, finché fa il suo lavoro: se tu dai una
cosa al pubblico, in un primo momento può essere snobbata, ma se
questa cosa viene promossa a tappeto alla fine cede sempre il
pubblico. La cosa strana è proprio questa, che il pubblico alla fine
accetta qualsiasi cosa.
Tornando alle canzoni
che ti gratificano maggiormente, preferisci forse “Un corpo
un’anima”?
Quella sì che è
diventata veramente una cosa mondiale, accettata in tutte le lingue e
in tutte le nazioni, al punto che Umberto Tozzi ancora mi bacia
quando mi vede. E’ stato in assoluto il suo primo hit, anche se
solo come autore. Mi ricordo all’epoca aveva fatto un provino del
brano e me lo portò insieme ad altri pezzi. Afferrai subito quella,
bocciando le altre.
A proposito di autori,
alcuni tuoi pezzi sono firmati da un certo Lubiak, cioè Felice
Piccarreda...
Il produttore che mi ha
fatto conoscere Dori. In realtà l’avevo già incontrata al
Cantagiro del ’69, e già allora stavo meditando un cambiamento –
noi americani siamo fatti così, a un certo punto abbiamo bisogno di
fare qualcosa di diverso e spesso lo facciamo in coppia. Se ci fai
caso, tutti gli artisti americani prima o poi hanno fatto un duetto
nella loro carriera. Insomma, fu Piccarreda a chiamare Dori in
studio, a Milano. La prima cosa che abbiamo registrato insieme, prima
di ufficializzare la coppia, è “Voglio stare con te”, che fu
inserita nel mio 33 giri “Vehicle”, quello con tutti gli
Airedales sulle moto Kawasaki. E da lì, è partita la nostra scalata
finita purtroppo quando è stata rapita.
Dori è stata la prima
cantante a cui hai pensato, o avevi fatto anche altri provini?
In verità ero diventato
molto amico di una ragazza che faceva la corista di Rita Pavone, si
chiamava Rita Monico, aveva una voce pazzesca, voleva fare delle cose
da solista e avevo anche scritto delle canzoni per lei. Però aveva
un problema alla gamba, non camminava bene e questo le leggi
impietose del palco e delle televisione non lo avrebbero ammesso. Io
non ho mai voluto parlare di questa ragazza perché poverina ha perso
un’occasione d’oro. Chissà come sta oggi…
Prima dicevi che gli
artisti hanno la puzza sotto il naso, a chi ti riferisci?
Gli artisti italiani sono
tremendi, perché tra colleghi non si salutano. Celentano ed io ci
siamo incrociati tante volte e non ci siamo mai scambiati una parola,
lo stesso con sua moglie. Loro stanno sulle loro ed io rimango sulle
mie, che posso fare? Molti cantanti hanno mantenuto una certa
distanza con me. Noi americani non siamo così, artisticamente
parlando. Non c’è niente da fare, il modo di pensare a questo
lavoro è molto diverso e un collega americano non rifiuta mai una
stretta di mano.
Qual è il tuo rapporto
con l’America?
Non buono, per questo
insistevo ad andare avanti qui e con me ho portato anche i miei due
fratelli, Orlando Johnson, il batterista che ora suona nei programmi
della Rai e Marvin, che però adesso vive in America, è tornato a
casa. Anche quando ho cercato di distribuire i dischi della Durium
non è stato facile. Nel 1976 ho fondato la mai etichetta Wesley
International. E’ durata 4 anni in Italia e 4 in Nord America.
E per un periodo hai
vissuto in Canada.
Mi piaceva di più, facevo
molti concerti ed avevo la possibilità di stare vicino agli Stati
Uniti, ma in un paese con la mentalità europea. Avevo una grande
comunità italiana che mi appoggiava e da lì era più facile
manovrare gli affari con New York, anche se nella jungla newyorkese è
impossibile sopravvivere. Già allora sparavano 900 produzioni al
giorno.
Anche Dori ti raggiunse
in Canada?
Non subito, anzi la prima
volta mi ha creato anche molti problemi perché una buona metà del
tour americano l’ho fatto senza di lei. Il produttore voleva
linciare l’impresario, serviva una ragazza somigliante… Pensavamo
che nessuno se ne sarebbe accorto. Al Madison Square Garden non c’era
Dori, ma una bionda che avevo conosciuto in Canada, totalmente
sconosciuta. Era un’italiana del sud, forse pugliese. Lo so non
sono belli certi trucchetti, penso pure che il pubblico se ne sia
accorto, poi per fortuna Dori mi ha raggiunto a Toronto e abbiamo
chiuso il tour insieme. E’ stato un grande successo, ma lei era
molto diffidente nei confronti dei produttori italo-canadesi.
Quali sono i numeri del
vostro successo in duo?
Impossibile stabilirlo, se
pensi che “Un corpo e un’anima” continua a vendere, soprattutto
in compilation. In cifre posso dirti che subito dopo Canzonissima
arrivò il riconoscimento per 800.000 copie vendute. E’ stato
sicuramente il nostro maggiore successo anche negli altri mercati,
con diversi milioni di copie solo in Sud America. Quando abbiamo
fatto l’Eurofestival con “Era”, la vendita dell’album in
Europa aveva raggiunto quota 6 milioni.
Quando la stampa ti
chiedeva del duo, tu rispondevi alla solita
domanda così: “Non
formiamo una coppia fissa, siamo due solisti che la casa discografica
ha messo insieme per vendere più dischi”. A cosa attribuisci il
successo, alla tua svolta melodica o alla novità della coppia?
Quello che facevo io è
quello che poi ha fatto uno come Zucchero, ma a metà degli anni ’70,
il soul e l’r&b non andavano più per la maggiore. Io vedevo la
cosa a modo mio, pensavo di fare il colpo grosso, ma i discografici e
i media sono riusciti a fare qualcosa di più incisivo, conquistare
il cuore delle casalinghe italiane. All’inizio è stata la formula
mista che ha più colpito e che ha fatto anche discutere. Ma il
successo è questo.
Ricordi qualche
episodio in particolare?
Alle volte la cosa era un
po’ comica. Anche se avevo semplificato apposta il mio nome –Wess da Wesley Johnson
–, la
gente trovava più facile chiamarmi signor Ghezzi… anche perché
molti erano convinti che Dori fosse mia moglie.
Forse anche voi, per
ragioni pubblicitarie, avete giocato con quest’ambiguità.
E’ partito semplicemente
come un lavoro. Ma poi, sai, stando insieme è arrivata la tenerezza.
Non è durato molto perché io avevo dei problemi, ero sposato, avevo
dei figli, non potevo approfondire troppo, anche se mia moglie già
sapeva… ma non ho ne ho mai parlato a nessuno: dovevamo sempre
nasconderci, per stare da soli scappavamo in montagna, a Bormio. Poi
Dori ha cominciato a soffrire, soprattutto quando a Sanremo mi
raggiunse mia moglie. Forse dovevo stare solo con lei e non l’ho
fatto.
E così è il tuo
primo matrimonio finì…
Tanto sarebbe finito lo
stesso… Con la vita che facevo era impossibile stare a casa, avevo
tutti addosso. Poi quando Dori ha conosciuto Fabrizio, ha cambiato
rotta.
Tu l’ hai conosciuto,
De Andrè?
Certo, la prima volta ci
siamo incontrati per caso in un teatro di Milano. Oddio, non so
quanto fosse casuale quest’incontro o magari coordinato da
qualcuno, forse per gelosia. So soltanto che io ero uscito con una
parente di Dori e alla fine eravamo seduti vicino, tutti e quattro
sulla stessa fila di posti numerati… una strana coincidenza, non ti
pare? Era pieno di giornalisti che ci scattavano foto ed è stato
proprio in quella occasione che è esplosa la novità che lei stava
con Fabrizio.
Qual è l’ultima cosa
che hai fatto con Dori?
Un album nel ’79, si
chiamava “In due”. Poi abbiamo registrato un pezzo che dovevamo
presentare al Festival Yamaha in Giappone nel 1980, ma il rapimento
in Sardegna mise fine tutto.
L’ultima volta che
l’hai incontrata?
Qualche anno fa sono
andato a Milano a fare una cosa in teatro organizzata da lei. Era
all’inizio della guerra del Golfo. Ora ci sentiamo al telefono ogni
tanto, ma non ho potuto più abbracciarla.
Wess, Elisabel Mintanjan (moglie del boss della Durium), Dori Ghezzi |
Timisoara Pinto