lunedì 28 dicembre 2020

Olivia Bertè: "Il più bel Natale a Santa Maria della Neve con Mimì"

Dal vinile al digitale: "Suan Edizioni" pubblica in streaming alcune rarità mai uscite su Cd. Tra i tanti brani da riscoprire, anche due canzoni inedite di Mia Martini, ritrovate da Christian Calabrese, collezionista, esperto musicale e figlio di Giorgio Calabrese, autore dei testi di alcuni classici della canzone italiana come  “E se domani”,  "Arrivederci", “Il nostro concerto”

L'intervista con Olivia Bertè, la più piccola delle quattro sorelle Bertè.

Mimì Bertè di Olivia Bertè, disegno per la copertina

Una regalo di Natale per i fan di Mia Martini: "Soli ad amarci" e "Per sempre resterò con te" sono due canzoni inedite ritrovate tra le “lacche” e i provini conservati dalla famiglia di Giorgio Calabrese, autore dei testi. Si tratta di brani del 1965, lei era molto piccola, aveva 11 anni meno di Mimì, che effetto le ha fatto questo ritrovamento? Cosa le ha ricordato?

“E’ stato un ritorno al passato, ho rivisto me piccolina e Mimì, una giovanissima ragazza piena di sogni e di entusiasmo. Ascoltando la sua voce limpida e cristallina, mi sono ricordata di quando mia sorella e mia madre prendevano il treno per andare a Milano, l’emozione di quei viaggi, i racconti dei primi contatti con il mondo della discografia. E’ chiaro che per me, sentire di nuovo la sua voce, in brani che non avevo mai sentito, è stata un’emozione molto forte, e penso lo sia per tutti per i fan, come una perla da racchiudere in uno scrigno”

Perché, secondo lei, questi brani non furono pubblicati?

Forse Carlo Alberto Rossi, musicista e discografico,  all’epoca non ebbe il coraggio di puntare su dei pezzi nuovi per Mimì, diversi dalla moda “yè-yè” del momento. 

Potrebbe darsi che Mimì non si riconoscesse in quei testi, da donna più adulta e con qualche cliché di troppo? 

“All’epoca si facevano tantissimi provini senza pensare troppo al risvolto sociale di una canzone, ma probabilmente “Per sempre resterò con te” era una canzone impegnativa per una ragazza così giovane”
Qual era la canzone di Natale di Mimì? Mi racconta un Natale insieme? Un suo ricordo con Mimì legato alle Feste.

Uno dei più belli è stato quando sono andata a trovarla a Calvi dell’Umbria, la vigilia di Natale abbiamo cenato insieme e poi siamo andate a piedi a Santa Maria della Neve a vedere il presepe vivente. Io indossavo un giaccone corto e Mimì mi disse “Non puoi assolutamente venire così”, ha aperto il suo armadio e mi ha regalato un cappotto marrone che ho adorato.

Che anno era?

Il Natale lo ricordo benissimo, era il 1988, prima del suo ritorno a Sanremo nel 1989, quando ci fu la sua grande rinascita.

Le parlò di quello che stava vivendo, di quello che sperava per Sanremo e la sua carriera?

Era felicissima di questo rientro, il pezzo le piaceva molto, certo era anche spaventata e non immaginava con quanto amore, con quanta gioia il pubblico l’avrebbe accolta. Si è sentita proprio abbracciata, questo mi ha detto.

A gennaio, gli inediti usciranno anche su vinile e la copertina l’ha disegnata lei, ce la può descrivere? A cosa si è ispirata?

Sì, Christian Calabrese, mi ha chiesto se avevo voglia di disegnare qualcosa che ricordasse gli anni Sessanta e io mi sono ispirata a delle copertine che avevo già visto di Mimì di quegli anni e poi ho pensato al suo rapporto con il mare e a quanto lei parlasse di Bagnara Calabra e di come si sentisse una sirena del mare.

Oltre ad essere una delle più grandi interpreti di tutti i tempi, Mia Martini era una cantautrice e polistrumentista. Ci sono inediti scritti da lei?

Sì, c’è un brano che si intitola “Madre e figlia”, penso l’avesse scritto per Mina, da quello che mi diceva, mi sembrava che avessero in programma di fare delle cose insieme. Poi aveva tradotto un pezzo di Bryan Ferry con il titolo “Lilith”, aveva alcuni progetti con Enzo Gragnaniello e Mimmo Cavallo, insomma c’erano varie cose a cui stava lavorando.

Qual è l’oggetto più caro di Mimì che conserva?

Sicuramente tra gli oggetti più cari ci sono i libri, “Paula” di Isabelle Allende, “’L’isola del giorno prima” di Umberto Eco, “Dell’amore e di altri demoni” di Gabriel García Márquez, questi sono gli ultimi romanzi che mi aveva regalato. Ho alcuni bracciali che lei adorava, anche se il ricordo più caro è nel cuore…

C’è qualcosa che avrebbe voluto fare Mimì e che non ha fatto?

Mimì adorava gli animali e diceva che avrebbe costruito un rifugio per animali abbandonati e, nello stesso tempo, voleva creare anche una casa di riposo per musicisti, questi erano i progetti che aveva e voleva realizzare.

“Madre e figlia” uscirà mai? Esiste il provino registrato da lei?

“La Bmg aveva il provino di “Lilith” e, sicuramente, altri inediti in giro ci sono, ma non ho idea di chi li abbia”.


Ascolta "Soli ad amarci"

Timisoara Pinto

domenica 22 novembre 2020

Antimilitarismo e nonviolenza, da Tenco a Caparezza nel libro "Coltivo una rosa bianca" di Enrico de Angelis, giornalista e storico della canzone


Prefazione di Don Luigi Ciotti

Introduzione di Mao Valpiana

Il libro contiene uno speciale inserto a colori con i ritratti dei sei cantautori realizzati da Milo Manara e Massimo Cavezzali.

I proventi del libro saranno devoluti al Movimento Nonviolento fondato dal filosofo Aldo Capitini

“Coltivo una rosa bianca” pubblicato da VoloLibero edizioni, è un libro dedicato a sei personaggi in cerca di pace, antirazzismo, rispetto per la natura, e nonviolenza. Perché proprio Tenco, De André, Jannacci, Endrigo, Bennato e Caparezza, da cosa sono accomunati?

"I sei artisti di questo libro sono accomunati dal fatto di aver cantato in misura più massiccia e con continuità, con insistenza, di antimilatirismo e nonviolenza, con spunti mai abbandonati in tutta la loro carriera, ma, a parte questo, cercano di farci capire cosa debba essere la pace, cosa sia una pace vera. Una pace iniqua, oppressa, omologata non è una pace, è piuttosto la “pace terrificante” di cui parla Fabrizio De André"

La musica e l’arte, scrive Don Luigi Ciotti nella prefazione, offrono specchi nei quali riconosciamo la nostra anima e binocoli per guardare più lontano e più in profondità. Qual è il suo preferito tra questi magnifici 6?

“E’ vero che ho scelto questi cantautori con un criterio oggettivo, ma li amo veramente tutti. Se proprio dovessi sceglierne uno, col fucile puntato, forse potrei dire Sergio Endrigo, perché proclama la sua indignazione sempre sottovoce, ma non per questo meno efficace, anzi”.

Nel 1962 Sergio Endrigo scrisse "Via Broletto 34" una canzone sulla violenza contro le donne, o meglio sul femminicidio, che non ha inserito nel capitolo dedicato al cantautore di Pola. Ce ne vuole parlare?

“E’ una canzone davvero sorprendente e non solo per lo stile e la forma, abbastanza inusuali per la canzone italiana. E’ ambientata nella più vecchia e centrale Milano, via Broletto appunto, ma il civico 34 non esiste, come andai subito, personalmente, a controllare la prima volta che andai a Milano da adolescente. La canzone non è né a favore, né contro l’omicidio, è un racconto, un bozzetto, e quando un grande autore come Endrigo ci racconta una storia come questa, con il gusto, l’eleganza, la disarmante trasparenza che gli è propria, allora in questi casi sono anche la forma, la classe, l’intelligenza compositiva che subentrano a escludere ogni misoginia e, ovviamente, ogni apologia di violenza. Una curiosità, fu proprio dopo l’ascolto di ‘Via Broletto 34’, che l’allora direttore della RCA, Ennio Melis, pensò che sarebbe stata una cosa molto interessante far incontrare Endrigo e Pasolini per realizzare altre canzoni come quella. Pasolini in quel momento non aveva il tempo di occuparsene ma diede a Endrigo l’autorizzazione ad usare alcuni suoi testi e da lì, in qualche modo grazie a via Broletto 34, nacque ‘Il soldato di Napoleone”.

Il libro affronta il tema della nonviolenza nei testi delle canzoni ma, come lei osserva giustamente, nel caso di Bennato e di Caparezza non meno importante è l’uso della voce o il modo di stare sul palco…

“In un libro così a tema, sono soprattutto i testi che analizzo, ma nelle mie pagine cerco di ricordare che la canzone va sempre letta contestualmente con la musica, il ritmo, la voce, l’intenzione del canto, la presenza scenica. Pensiamo ad esempio a Bennato che usa moltissimo l’ironia, dice delle cose che sono esattamente il contrario di quello che pensa e questo lo si capisce grazie all’uso della voce distorta, ai versacci, alle pernacchie, è la voce che fa satira. Penso anche a Jannacci, a come farfuglia le parole, alla poltiglia di vocaboli che mette insieme quando parla e canta e in questo modo riesce a dare una valenza disperata anche alle canzoni più grottesche”

Negli anni sessanta la chiamavano canzone di protesta, oggi come la definirebbe?

“La parola protesta, in verità, ci sta sempre bene, ma potremmo chiamarla canzone di coscienza”


Timisoara Pinto

sabato 31 ottobre 2020

Le lezioni di Roberto Vecchioni: “Sono sempre stato, con gioia, comunista”

“Dobbiamo avere il coraggio di fermarci, la vita umana è più importante, ma presto ritorneremo a volare”, verbo tanto presente nelle canzoni del professor Vecchioni ed ora anche nel suo nuovo libro, “Lezioni di volo e di atterraggio. Le lezioni che tutti avremmo voluto ascoltare a scuola e nella vita”, scritto durante il lockdown.

“Lezioni di volo e di atterraggio” è un libro epico che parla di miti, di eroi, del significato delle parole e del rapporto con gli studenti. Per caso le manca la scuola, professore?

Mi manca proprio il Liceo, perché era un crescere insieme, un costruirsi tutte le possibilità di fantasia e di sogno, anche logiche, che propone la cultura.

Il mondo della cultura protesta per la chiusura di cinema e teatri, qual è la sua posizione?

Sono d’accordo, ma chi non è artista, non sa che cosa soffra un artista quando non può salire su un palco, è come togliere le ali a una farfalla. Però, purtroppo, qualcosa bisogna fare, non possiamo assolutamente rischiare. Io lo so che protestano i ristoratori, protestano gli artisti, protestano ‘perché quelli là sì e noi no’, protestano tutti, ma la vita umana è più importante di tutto. Torneremo lentamente sui palchi, solo che, al momento, dobbiamo avere il coraggio di starne fuori, per il bene del paese, dobbiamo saper fare questo sacrificio. 

Resta, però, l’equivoco sull’espressione “attività superflue” che ha innescato una serie di reazioni, a partire dalla lettera di Riccardo Muti a Giuseppe Conte

Non l’ho letta, ma è chiaro che la cosa più importante è che noi abbiamo una dignità e vorremmo sentirci dire che tutto questo accade non per toglierci la dignità, ma semplicemente perché non è possibile fare altrimenti. La dignità dell’artista non va assolutamente scalfita.

Nel libro sono narrati tanti aneddoti della sua vita da professore di Liceo, missione che ha svolto per oltre trent’anni, ad esempio ha portato la didattica fuori dalle aule, all’aperto, e non per motivi di pandemia. Perché le chiama “Giornate di follia”?


Si immagina lei, nell’87, portare fuori i ragazzi a fare lezione? E poi, ci invidiavano tutte le classi. Uscivamo una volta ogni dieci giorni, la scuola è fatta anche di sacrificio e di programmi, non vorrei che gli altri insegnanti dicessero: “Ah lui se lo poteva permettere!” Il bello è che ognuno parlava liberamente, un discorso continuo in cui entravamo tutti, per scoprire cosa l’uomo aveva costruito nella cultura scientifica e umanistica. Era una classe di ragazzi bravissimi, che io nel libro ho descritto come pittori perché dipingevano se stessi, una classe di ragazzi che ci stavano al gioco, come quando li ho costretti a studiare il Vangelo o a ripensare Ulisse come un drogato. E’ bello uscire dallo schema, trovare altre soluzioni, anche impossibili, perché l’uomo è un’avventura planetaria, non si può assolutamente costringerlo nelle pagine di un libro.

E’ un libro autobiografico o una lectio magistralis?

Non saprei, è comunque un romanzo, un romanzo di saggi, nel senso di lezioni, ecco, è un romanzo di lezioni, un genere nuovo. C’è una storia dentro, quella tra me e il professor Bataille, una storia a specchio, io che incontro me stesso vecchio, quando la concezione dell’amore cambia completamente. E poi c’è la storia dei ragazzi.

Con qualcuno di loro è rimasto in contatto?

Sì, molti mi hanno scritto via mail, attendono freneticamente questa uscita per sapere cosa dico di loro. Mi stupisco, piuttosto, di non averle scritte prima le mie lezioni. Come mai mi è venuto in mente solo adesso? Sarà stato il blocco che abbiamo avuto a marzo, dovendo stare in casa, mi son detto che era la volta buona per ricordare quello che insegnavo"

Nostalgia?

Tanta nostalgia, insegnare è stata per me la cosa più bella del mondo, anche più di andare su un palco a cantare. E’ un rapporto infinitesimale di amicizia e passione, ma anche di autorità, che non dimenticherò mai. Sono cresciuto tanto, da pischello, come dicono a Roma, sono diventato una persona abbastanza sicura di sé e di quello che dice. Noi conosciamo i ragazzi molto di più dei loro genitori, i ragazzi a scuola sono indifesi, li vediamo proprio nella loro anima. Io sapevo tutto, sentivo quando non ce la facevano, non li interrogavo quando capivo che avevano un problema. Non parlo dei superbi, quelli con me avevano vita breve, li conciavo sempre malissimo. Il Liceo è un universo, è come essere in una bolla, in cui vedi i riflessi dell’esterno, e tu dentro, guardando le cose, indaghi te stesso, questo facevamo.


“Poesia e canto sono due forme di un identico pathos”. In un capitolo, descrive la sua amicizia con Alda Merini e ci regala una sua poesia inedita, chiosando: “Dovrebbero tradurla a Bob Dylan”.

Dylan dovrebbe leggere tutta la Merini, non solo quella poesia, per capire come si può scrivere con poche parole, la Merini non ha un vocabolario esteso, però è un vocabolario di grandissimo pathos, le parole le sa mettere.  Lei scriveva al volo, non correggeva mai, l’ho vista scrivere sulle porte delle case, sulla carta igienica, dettava perché non voleva nemmeno fare la fatica di scrivere.

Per spiegare il mito, si va da Fabrizio De Andrè, quasi un rito di iniziazione per molti di noi negli anni del Liceo, alla squadra del cuore, nel suo caso l’Inter, con Mario Corso, l’inventore della “foglia morta”, scomparso recentemente. Chi è per lei il Mario Corso della canzone d’autore?

Come genialità probabilmente Rino Gaetano, forse il più bizzarro, il più estroverso e nuovo cantautore, ma non c’è solo lui, ce ne sono anche altri che hanno queste caratteristiche. Il guizzo, quello che fa cose che nessuno sa fare, ecco quello è il Mario Corso. De André è stato bravo sempre, non lo associo a Mario Corso, De Andrè è come Ronaldo, Mario Corso aveva quel colpo di genio che stupiva. Anche Jannacci era un Mario Corso.

Lo sa che il preferito di Rino Gaetano era Enzo Janancci?

Ecco, senza saperlo ho beccato i due che si somigliano, in fin dei conti.

Recentemente il premier Conte, alla commemorazione per Willy Monteiro Duarte, ha detto: “Bisogna scardinare la violenza con lo studio, la conoscenza, il coraggio”. Cosa ne pensa del dilagare del linguaggio dell’odio e dei commenti brutali che infestano i social?

Il mondo è condannato alla complicazione, non alla semplificazione, per cui si annoda tutto e i nodi non si riescono più a sciogliere. E’ un’escalation a gradi di incompetenza, tutti quanti pensano che la democrazia sia aprire la bocca e invece la democrazia è pensare a quello che esce dalla bocca, è una cosa molto diversa. Ci siamo ormai abituati a considerare soltanto e quasi sempre il nostro punto di vista e mai quello degli altri, senza quella grande capacità di afflato comune che, come dice bene Conte, dovrebbe continuare ad esistere. 

In un passaggio del libro, scrive: “Non avevo troppa voglia di politica, se n’era appena andato un uomo che, quello sì, era un mito e mi aveva lasciato un buco nel cuore, grande come una voragine”

Lei lo avrà capito, è Enrico Berlinguer e stava facendo un miracolo. Il libro non parla di politica, anche perché sono stufo, ogni giorno ci sono solo trasmissioni politiche e altre venti sul covid, e poi le mie idee politiche le conoscono tutti. Berlinguer è un grande uomo per la semplicità con cui si esprimeva e perché ha tentato di mettere insieme due anime dell’Italia, erano tempi in cui l’intellettuale e l’operaio potevano capirsi, poi si sono separati e si è rotta tutta la sinistra.

Ha appena detto "le mie idee politiche le conoscono tutti”...

Certo, direi.

Ricorderà che recentemente il suo collega e amico, Francesco Guccini, ha dichiarato: “non sono mai stato comunista”, riferendosi alla sua vocazione libertaria, socialista e anarcoide

Io l'ho sempre saputo che Guccini non è mai stato comunista.

E lei, Vecchioni, può dire lo stesso di Guccini?

Certo che no, io sono stato comunista. Lo sono stato per tanti anni, lo sono stato soprattutto, con gioia, quando Berlinguer si è staccato dai russi, ero pienamente convinto. Poi, sa, ci sono anche utopie giovanili a questo mondo, rimango fortemente attaccato al mio pensiero “debole”, che l’uomo è grande, che bisogna aiutarlo, e che tutti abbiamo gli stessi diritti. Sono ovviamente una persona di sinistra, ma avendo ormai passato i settant’anni, non potrei più pensare al mondo come al materialismo meccanicistico di Marx, non ci penso più a quelle cose lì, però so che c’è uno spirito di umanità che gira per il mondo e ci fa uguali e i miei sogni ce li ho sempre, anche se, come le ho detto prima, andiamo verso la confusione, non verso la semplificazione.

Timisoara Pinto

con Roberto Vecchioni nel 2013





venerdì 2 ottobre 2020

“Atom Heart Mother”, la mucca più famosa del rock


Compie 50 anni la mucca più famosa del rock, “Atom Heart Mother”, il quinto album in studio dei Pink Floyd, pubblicato il 2 ottobre 1970, il disco della svolta, del passaggio dal periodo psichedelico ai fasti dei kolossal rock della band.

Atom Heart Mother è uno dei primi dischi della storia del rock a non riportare il nome della band in copertina, senza le foto e le scritte deformate a cui ci aveva abituato la grande grafica degli anni Sessanta.

La band voleva distaccarsi dall’immaginario psichedelico e per questo chiese un’immagine semplice. Fu così che arrivò lo scatto della mucca frisona, citata e omaggiata, tra gli altri, da un album postumo di Frank Zappa, da Aerosmith, Elio e le Storie Tese, Blink 182. 

Atomo, cuore, madre: madre dal cuore atomico. Per il titolo, Roger Waters prese spunto da un articolo di giornale che parlava di una donna in gravidanza a cui era stato impiantato un pace-maker atomico.

I Pink Floyd non hanno mai amato particolarmente questo album al punto che David Gilmour l’ha definito 
spazzatura sperimentale, un raffazzonato tentativo di raschiare il fondo del barile, ma “Atom Heart mother” è ancora oggi, tra i più apprezzati dai fan della band, nonché il primo del gruppo a raggiungere il numero uno della classifica inglese.

Dissonante e intimo, rumori domestici e aperture ariose, con una potenza sonora e orchestrale dovuta all’opera di mixaggio di Alan Parsons e Peter Brown, e agli arrangiamenti di Ron Geesin, compositore d’avanguardia, che per questo disco fu giustamente definito il quinto Pink Floyd. Un film per le orecchie, tanto che Stanley Kubrick chiese ai Pink Floyd di poter spezzettare la suite di circa 23 minuti che dà il titolo all’album in vari momenti di “Arancia Meccanica”. Non se ne fece nulla, ma Kubrick riuscì comunque a inserire il disco nel film, facendo apparire la copertina nella scena ambientata in un negozio di dischi.

Storm Thorgerson, autore della copertina, lo stesso ‘cover designer’ di “The dark side of the moon”, dichiarò: “Penso che la mucca rappresenti il loro umorismo, un aspetto poco conosciuto o sottovalutato dei Pink Floyd”, senza sapere che molti anni prima, nel 1963, una mucca pezzata era già stata utilizzata come foto di copertina da uno dei nostri cantautori più amati e, guarda caso, più ironici, Sergio Endrigo.








mercoledì 23 settembre 2020

Juliette Gréco, la musa che si abbronzava alla luna…

“Ero una ragazza nera e bianca con i capelli lunghi. Mi interessava molto la cultura e i fotografi si interessavano molto a me”. Con queste parole, in un’intervista radiofonica di quarant’anni fa, la “rosa delle tenebre” (per Jean Cocteau), il “piccolo cucciolo da cabaret” (per Charles Trenet) o musa dell’esistenzialismo (per sempre e per tutti), svelava qualcosa di sé. Misteriosa come la Sfinge, con gli occhi grandi e truccati di nero come una dea egizia, la pallida Gréco, che secondo Pablo Picasso “si abbronzava alla luna”, indossa ancora i suoi lunghi abiti neri, ieri Chanel, oggi Sonia Rykiel. Il 7 febbraio Juliette Gréco compirà 78 anni e, prima del concerto del 16 gennaio all’Auditorium, è attesa domani a Catanzaro il 14 e a Catania il 15. La sua voce fascinosa e per nulla usurata dal tempo posa al telefono, dalla sua casa in campagna a 80 km a nord di Parigi.

 

Contenta di tornare in Italia, madame Gréco? 

"Incantata. L’Italia è la mia seconda patria. Amo la sua bellezza, l’anima, la gente, la musica, la pittura, la scultura, il mare. E’ un paese che adoro”.


E’ vero che farà un disco con Paolo Conte? 

“E’ quasi sicuro. Mi piace molto anche Zucchero, ma non conosco altri musicisti italiani, purtroppo”. 

 
Al suo arrivo troverà una sorpresa: il divieto di fumare. 

“Lo so bene, la notizia è arrivata anche qui. La trovo una decisione piuttosto violenta. E poi è assurdo e incoerente che da una parte si faccia una legge del genere e dall’altra le strade siano piene di distributori a disposizione dei ragazzini. D’altronde è come in Francia, ma io ho smesso di fumare da molto tempo”.  


Ha mai amato uomini italiani?  

“No, nella mia vita molto agitata, questo non è capitato e lo rimpiango”. 
 


Ha mai parlato dei suoi affetti nelle canzoni?

“Ho scritto un brano per un figlio che non ho mai avuto. Ho una figlia che mi gratifica pienamente, ma questo bambino della canzone non l’avrò mai. Allora amavo un uomo con il quale non potevo avere bambini”. 


Molti artisti hanno scritto per lei; ora chi sceglierebbe? 

“L’uomo con cui sto: Gerard Jouannest, pianista e compositore di Jacques Brel”. 


E qual è stato l’uomo più importante della sua vita? 

“Quello che ho amato quando avevo 19 anni e che è morto giovanissimo. Dunque ero “vedova” a 19 anni”.


Lei ha sempre preso una posizione in politica. Ci sono canzoni che fanno altrettanto, come “Il disertore” di Boris Vian. Lei che ne pensa? 

“Non l’ho mai cantata, perché è una canzone adatta a un uomo. Ma penso sia perfetta per descrivere la situazione attuale e, finché esisteranno degli eserciti, lo sarà sempre”. 


Cosa pensa della posizione della Francia rispetto alla guerra in Iraq? 

“Penso abbia avuto ragione a dire no. Un gesto coraggioso e molto bello”. 


E della posizione italiana?  

“Non mi riguarda”. 

 
Avrà sicuramente un’opinione...

“Si, ma è negativa”. 

 
Ha riflettuto sulla tragedia che ha colpito l’Asia? 

“Spaventoso. Si ha un bel dire che Dio è buono, ma per il momento non ci tratta molto bene. Questa sciagura ci riporta alla nostra dimensione che è molto piccola. Ci dovrebbe richiamare all’umiltà, alla solidarietà e ricordare che c’è della gente che abusa della debolezza dei bambini per rapirli e venderli. Ancora più abominevole pensare che approfittino di momenti come questo per intensificare i loro traffici”.  


Cosa può fare un artista? 

“Detesto quelli che appoggiano le grandi cause per sostenere la propria. Io avrei l’impressione di servirmi del sangue degli altri. Si può essere utili al prossimo senza apparire. Per lanciare un messaggio a volte basta cantare”. 

 

Timisoara Pinto (intervista gennaio 2005)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 7 febbraio 2020

Storie di deportati italiani nei lager nazisti: il pittore Aldo Carpi (padre di Fiorenzo Carpi)


Un dipinto di Aldo Carpi 
“Queste cose le ho vissute e le ho scritte, ma quello che ho vissuto è molto diverso da quello che ho scritto”
Aldo Carpi, pittore e scultore, papà del grande e geniale compositore Fiorenzo Carpi e di altri cinque figli, fu deportato a Mauthausen e poi a Gusen.
Riuscì a salvarsi perché i nazisti gli chiedevano i ritratti per le loro fidanzate, dipingeva per loro anche i paesaggi che da lì, naturalmente, non poteva vedere.

A Gusen riuscì a scrivere delle brevi lettere in cui immaginava di rivolgersi a sua moglie Maria. Queste pagine sono arrivate a teatro grazie allo spettacolo della nipote, Martina Carpi, figlia del primogenito Fiorenzo.

Aldo Carpi, pensate, era nato a Milano nel 1886 e a 12 anni è già testimone della storia, dei moti operai del 1898, degli arresti e delle repressioni di Bava Beccaris.

"I fascisti sono venuti a prendermi perché avevo aiutato un'allieva ebrea agli esami di Brera, l'avevo aiutata come qualsiasi altro allievo che ne avesse avuto bisogno, solo che mi aveva fatto orrore vedere quella povera ragazza messa da parte come una bestia velenosa, mentre dei miei colleghi prendevano sul serio quelle cose ed è stato uno di loro a denunciare il fatto."

In quelle infime condizioni, Aldo Carpi riuscì sempre a mantenersi uomo, di quella tragica esperienza ricorda lo sforzo di mantenere la calma, la speranza, lo sguardo sempre alto e lontano, ma tornato a casa e nominato direttore di Brera per acclamazione, non volle mai più rileggere il suo diario. “Mi venivano in mente le canzoni, gli echi e gli accenti di Vivaldi e di Bach” racconterà anni dopo.

Tutta la sua famiglia riuscì a scappare in Svizzera, tranne Paolo, il penultimo figlio, deportato e ucciso a Gross-Rosen a pochi giorni dalla liberazione, appena i nazisti capirono che mancava poco all'arrivo delle armate sovietiche.
Tutto questo lo so perché ieri sera ho ascoltato il racconto di Martina Carpi che ha voluto portare a teatro questa storia di famiglia, questa storia che riguarda tutti noi.


Aldo Carpi con la nipote Martina