“Il tango evapora, si volatilizza, arriva il bolero, il boogie woogie, arriva il rock, e automaticamente un tango muore perché non si balla più.
Ma al contempo nasco io”
E’ un’intervista inedita di Astor Piazzolla tratta del documentario di Daniel Rosenfeld, “Piazzolla, la rivoluzione del tango”, che uscirà in Italia con la riapertura delle sale cinematografiche. La vita del musicista italo-argentino raccontata con riprese in Super8, fotografie, nastri vocali, conservati negli archivi della famiglia Piazzolla. In tutto il mondo si celebra il centenario della nascita del musicista che ha saputo trasformare il tango in un linguaggio universale, come spiega Maria Susanna Azzi autrice del libro “Astor Piazzolla, una vita per la musica” , tradotto in 5 lingue e pubblicato in Italia da Sillabe editore.
Maria Susana Azzi com'è avvenuto il suo incontro con la musica del maestro del tango d’avanguardia?
Come antropologa culturale trovo che il tango sia una finestra incredibile sull’emigrazione europea in Argentina, cosa che poi mi ha permesso di conoscere non solo la storia, i processi sociali, culturali, la politica e l’economia, ma anche la musica e il ballo. Attraverso le arti era inevitabile arrivare ad Astor Piazzolla.
Una biografia realizzata dopo aver intervistato 260 persone. L’edizione italiana in cosa si differenzia dalle altre?
Una galleria fotografica molto più completa di altre edizioni pubblicate in inglese dalla Oxford University Press, in spagnolo, coreano, giapponese e polacco e contiene anche degli omaggi da parte di Salvatore Accardo, Milva, Pino Presti, Gianni Mestichelli, Daniel Hugo Piazzolla, il figlio del maestro, e di Walter Santoro, presidente della fondazione internazionale Carlos Gardel.
Il sogno di Piazzolla era diventare un compositore di musica sinfonica ed è lui a raccontare il suo primo incontro con la musica in un’intervista del 1976: “Avevo l’età di nove anni, quando mio padre arriva a casa con uno strumento con una grande custodia. Era un bandoneon, un bandoneon a New York nel 1930. Io non sapevo nulla sul tango, ma io ero affascinato da un uomo che suonava il pianoforte nella casa accanto, era un ungherese allievo di Serjei Rachmaninov e io ascoltavo Bach tutta la giornata. Passavo il giorno accanto alla finestra, invece di giocare, per sentire quell’uomo meraviglioso suonava Bach e così ho finito col suonare il tango come se si trattasse di Bach”.
La fisarmonica ha un suono acido, tagliente, è uno strumento molto vivace. Il bandoneon ha un suono vellutato, religioso. E’ stato costruito per suonare musica triste, diceva Piazzolla - Questo lo rendeva ideale per il tango, con i suoi forti elementi di nostalgia e malinconia. La fisarmonica con il suo timbro allegro, non renderebbe giustizia all’essenza della nostra musica. Al posto di un giocattolo, Piazzolla riceve una scatola magica che segnerà per sempre la sua vita...
“Piazzolla bambino rimase molto deluso perché come regalo si aspettava una mazza da baseball. Con questo dono del bandoneon, strumento musicale, ma anche simbolo culturale, il padre ha voluto dirgli: ‘Sentiti argentino, non sentirti immigrato senza radici come mi sento io’.”
Maria Susana Azzi, Piazzolla disse che "La cumparsita" era il peggiore dei tanghi, nel suo libro lei scrive che inserendo nel suo gruppo strumenti come l'organo Hammond, il flauto, la marimba, il basso elettrico, la batteria, le percussioni, la chitarra elettrica, voleva creare uno “scandalo nazionale”, che gli argentini non erano pronti per le “creazioni audaci”. Nel docufilm di Daniel Rosenfeld, Piazzolla difende il suo tango dagli attacchi dei tradizionalisti. Si sentono gli ascoltatori di un programma radiofonico che lo chiamano “killer”, “degenerato”. Era il 1960 e Piazzolla con molta ironia risponde “They made me popular”. Poi racconta di un taxi a Buenos Aires che non accetta la sua corsa e gli grida “comunista!” Insomma, un trasgressore, senza mai smettere di essere un tanguero, Piazzolla voleva trasformare il tango in qualcosa di più universale, ma per molti anni nel suo paese non fu capito.
Astor Piazzolla è il prodotto di una tradizione e, al tempo stesso, rappresenta la rottura di quella tradizione. Piazzolla ha rotto il paradigma del tango e i tradizionalisti non l’hanno mai perdonato. Nelle sessioni di registrazione a Parigi, nel 1955, Piazzolla adottò l’abitudine di suonare il bandoneon in piedi, con una gamba appoggiata ad una sedia a dispetto di tutte le convenzioni. ‘Non riuscivo a vedere i musicisti al mio stesso livello’. In un’altra occasione ha dichiarato: ‘Dovevo sentirmi al di sopra di loro’. Da quella posizione poteva guardare e dirigere l’intera orchestra. Non gli era mai piaciuto suonare il suo strumento seduto, gli ricordava molto una signora anziana che fa la maglia. ‘Penso anche che balliamo insieme io e il bandoneon” avrebbe detto anni dopo. Quella postura simboleggiava il mondo che stava cercando di rinnovare. Suonare in piedi era la sua dichiarazione di indipendenza. La lotta in argentina tra i piazzollisti e gli antipiazzollisti è durata decenni. Promotore di un profondo rinnovamento della muscia del tango, Piazzolla era in continua evoluzione e il suo lavoro rifletteva Buenos Aires, il rumore della società contemporanea e l’intera gamma delle emozioni umane. Venerato e insultato, è morto nel 1992, oggi è considerato una delle glorie della cultura argentina.
Maria Susana Azzi, Astor Piazzolla ha introdotto nel tango nuovi elementi armonici e ritmici, qual è la sua modernità?
E’ molto difficile fare un tango nuovo senza l’influenza di Piazzolla. La sua musica è una fusione intelligente tra il tango, il jazz e la musica classica contemporanea. Da ragazzo aveva vissuto a new York e lì ascoltava il blues, il ragtime, il klezmer. I suoi idoli musicali sono stati Bach, Béla Bartók, Stravinsky, Vivaldi, Hindemith, Ravel. La sua melodia è pucciniana e, guarda caso, Puccini è nato a Lucca e i nonni materni di Piazzolla sono nati a Villa Collemandina, in provincia di Lucca”.
Toscani di Massa Sassorosso dove nel 2013 è stata inaugurata piazza Astor Piazzolla e i nonni paterni erano di Trani in Puglia. L’Italia amava e ama Piazzolla. Astor Piazzolla amava l’Italia?
“Piazzolla amava l’Italia, quando si trasferì dall’Argentina all’estero per la seconda volta, da adulto, ha scelto l’Italia e ha vissuto a Roma. Si sentiva italiano, nel mangiare, nel bere, adorava le donne, i film e la musica italiana. E’ tornato in Italia tante volte, è stata la sua collaborazione con Milva che l’ha reso famoso in Italia. La storia di Piazzolla è anche una storia simbolo dell’emigrazione italiana. Mi hanno chiesto tante volte se Piazzolla fosse italiano, era un italo-argentino che come tanti di noi, aveva l’Italia nel cuore. E’ la nostra seconda patria”.
La sua casa romana era in via dei Coronari, ha collaborato con Mina e Milva e, nel 1974, ha scritto e inciso uno dei suoi brani più celebri, “Libertango”, proprio in Italia. Con Pino Presti al basso elettrico, Tullio De Piscopo alla batteria e percussioni, Andrea Poggi, ai timpani e alle percussioni, Filippo Daccò alle chitarre, Felice Da Vià al pianoforte e organo, Giovanni Zilioli, organo e marimba, il violino di Umberto Benedetti Michelangeli, la viola di Elsa Parravicini, il violoncello di Paolo Salvi, il flauto contralto di Marlaena Kessick e il flauto soprano di Giann Bedori e Hugo Heredia. Libertango è un capolavoro inciso dalle orchestra di tutto il mondo, è diventato un successo anche nella versione elettropop di Grace Jones, è un brano che quando parte non può lasciarci indifferenti, in qualche modo risveglia qualcosa in tutti noi. Che pensava Piazzolla di Libertango?
"E’ stata una rivoluzione anche per lui, pensava alla libertà, infatti le parole di Horacio Ferrer parlano di libertà, quella libertà con responsabilità che ha sempre cercato Astor Piazzolla".
A Cuba, un giornalista gli chiese: lei esprime in musica ciò che non può dire in Argentina? Ma lui, che definiva la sua musica rivoluzionaria, non rispose.
“Glielo impedì il suo manager, chiudendogli il microfono. Piazzolla non è mai stato un animale politico, è stato soltanto un musicista tutta la sua vita, fino alla fine”.
Timisoara Pinto
Il servizio a "Prima fila" su Radio1
venerdì 12 marzo 2021
lunedì 8 marzo 2021
Sanremo 2021. La tua banda suona il rock... in un’eterna ripartenza
E’ appena finita la settimana in cui tutto si sanremizza: la musica, la tv, i giornalisti, i gusti, le parole.
Sanremo è un grande rito nazionalpopolare e tutto viene riparametrato all’internodi quel recinto. Un esperimento di psicologia sociale, oltreché di comunicazione di massa. "Rivoluzione” riferito ai Maneskin, un termine utilizzato da uno dei maggiori quotidiani e intorno al quale giustamente si è scatenato il dibattito sui social, risuona troppo sbilanciato, eccessivamente ottimistico, almeno così arriva ai tanti che guardando Sanremo a distanza, al di fuori del meccanismo festivaliero, non sono travolti dallo stesso entusiasmo e neanche lo capiscono.
Per il Giornale Radio ho trasmesso il commento a caldo del critico Stefano Mannucci, grande penna del giornalismo musicale, che ha dichiarato: “I Maneskin hanno ribaltato l’Ariston, hanno portato quell’energia che manca ovunque nel paese. La loro vittoria certifica l’approdo del rock italiano al tavolo importante della musica. Il loro brano, dedicato a un professore che diceva solo “State zitti e buoni”, alla vigilia del ritorno di tantissimi studenti alla didattica a distanza, può essere interpretato come un segnale importante. E’ il rock italiano che dice qualcosa di sensato”. Ecco quello che ci è mancato soprattutto, la reazione del pubblico in sala, la standing ovation sull’intonazione e il possesso del microfono da parte di Orietta Berti, 77 anni e senza ear monitor. Avrei voluto vedere il pubblico, se davvero si sarebbe scatenato sui Maneskin, perché quello che riempie le poltrone dell’Ariston è un pubblico di età medio-alta, insomma una fascia anagrafica diversa da quella che con il televoto ha decretato la vittoria del gruppo romano. E’ chiaro che il termine utilizzato è una metonimia, dove l’Ariston sta per “pubblico che guarda Sanremo da casa” (quest’anno l’unica modalità possibile peraltro) quindi, il ribaltamento a cui allude Mannucci, riguarda il coinvolgimento di un pubblico che si è avvicinato alla musica attraverso i social e i talent tv. E’,infatti, con il televoto e la Sala Stampa, che i Maneskin hanno ribaltato la classifica: dopo le prime due serate erano quindicesimi nelle preferenze della giuria demoscopica, (quella composta da 300 persone, un campione statisticamente rappresentativo selezionato tra abituali fruitori di musica). Alla fine della terza serata, i Maneskin erano decimi con la cover di “Amandoti” dei CCCP, eseguita con il loro talent scout Manuel Agnelli, e grazie al voto dell’orchestra del Festival. Con il voto della sala stampa, i Maneskin sono risaliti al quinto posto e, infine, giornalisti accreditati e televoto sono le due giurie che, nella terna finale, hanno consegnato leone e palma d’oro alla band romana. Sono i risultati del televoto che hanno fatto gridare al miracolo. Nel Sanremo della pandemia, il pubblico degli adolescenti esulta e si commuove per il trionfo dei Maneskin, “Zitti e buoni” è un pezzo energico, un serenata sfrenata al "chiaro di luna" (Maneskin in danese) che incarna la voglia di urlare di tanti ragazzi, in questo anno difficile per la loro crescita, ragazzi che si sentono improvvisamente rappresentati da un festival che ha appena compiuto 71 anni. Collezionano like e visualizzazioni, come del resto i secondi Fedez e Michielin e il terzo classificato, Ermal Meta. L’equazione “forti sui social, forti a Sanremo” quest’anno ha funzionato, ma sono il coprifuoco, la socialità filtrata dagli smartphone, che hanno rivoluzionato la classifica. Decisivo è stato il voto di quella fascia d’età,la stessa o poco meno, di Victoria, Damiano, Ethan e Thomas, che sono belli, ammiccanti e sexy e si scatenano cantando "Siamo fuori di testa". Da un punto di vista musicale, rivoluzionaria è stata la vittoria di un brano che strizza l’occhio ai canoni trasgressivi del glam-rock e non un brano rap e o trap, ad esempio. Quello che era rivoluzionario fino all’anno scorso per stampa e addetti ai lavori, improvvisamente non lo è più? Insomma, la vera notizia è che ha vinto la trasgressione tradizionale delle rockband, hanno vinto le chitarre (per il mainstream sembrava che dovessero sparire) e non la moda dell’autotune. Togliete l’autotune dal bel pezzo di Madame (la mia preferita insieme a La Rappresentante di Lista e Colapesce/Dimartino) e apprezzerete meglio anche quello che dice in “Voce”, che guarda caso, ha vinto il premio Sergio Bardotti per il miglior testo. Quello che alla fine non torna è perché tutto questo tripudio? Perché dovremmo sentirci meglio per la vittoria di un artista che rappresenta i giovani e non, ad esempio, per un quarantenne o cinquantenne? A Sanremo quest’anno fortunatamente ci sono stati ottimi debutti, artisti fortemente voluti proprio perché arrivavano da palchi e contesti lontani dalla grande discografia, ma ci sono stati anche artisti “sanremesi”, dei veri e propri habitué. Ecco, alcuni di questi, finiti in mezzo o in fondo alla classifica, sono apparsi quasi come dei classici, più vicini a Orietta Berti che ai Maneskin, su cui neanche i bookmakers hanno scommesso qualcosa. Eppure sono i quarantenni e i cinquantenni i “giovani” ascoltatori di musica, quelli cresciuti con la capacità di apprezzare l’emergente e il veterano. Diciamo che purtroppo tra quelli, la categoria “e allora noi cosa rappresentiamo?”, una canzone che emergesse sulle altre, non c’era. Ma torniamo al punto: perché dovrebbe essere un valore piacere agli adolescenti, rincorrere il loro gusto? Ci poniamo questo problema nelle altre arti? Perché l’artista che fa musica deve rincorrere un linguaggio comprensibile ai ragazzi? Quando scriviamo un libro, realizziamo un film o uno spettacolo teatrale accade questo? In quei campi esistono, infatti, settori specifici come la letteratura per ragazzi. Attenzione, perché da qui discende la considerazione della musica, la distinzione in etichette come musica leggera o di consumo, commerciale, in cui va a finire anche il meglio del pop universale. Un’idea ce l’avrei. Fino ai 18 anni tutti scrivono poesie, diceva Benedetto Croce, poi rimangono a scriverle due categorie di persone, i poeti e i cretini.
E così anche nella musica. Fino ai 18 anni tutti “consumano” musica, poi crescendo,restano solo due categorie ad amarla e a viverla completamente, pochi appassionati e noi “addetti ai lavori”, i poeti e i cretini.
Con amore.
Timisoara Pinto
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