martedì 28 marzo 2023

Laurea honoris causa a Ivano Fossati in Letterature moderne e spettacolo. La lectio magistralis di un "narratore da 3 minuti"

“Con la sua lunga e brillante carriera ha scritto un importante capitolo della musica leggera e per riflesso un importante capitolo della nostra vita, perché la musica fa parte della vita di ognuno di noi e quando le canzoni riscuotono un successo intramontabile come quelle di Ivano Fossati, è impossibile non averle ascoltate e persino trovarvi similitudini e assonanze con momenti della nostra vita”. E’ l’inevitabile premessa del Rettore Francesco Delfino che rimanda a quelle che Proust ha definito “intermittenze del cuore” e che Pier Paolo Pasolini ha codificato nelle sue riflessioni sul significato e la forza delle “canzonette”, quel soprassalto emozionale ed esistenziale provocato da brani come “La costruzione di un amore”, “Carte da decifrare”, “C’è tempo”, “Treno di ferro”, e mi fermo qui perché da “Un’emozione da poco” in poi l’elenco sarebbe lunghissimo.

“Nella diffusione della cultura ha dato prova di sensibilità e profondità, capace di instaurare un dialogo e veicolare contenuti proprio come ha sempre fatto con le sue canzoni”, prosegue il Rettore, facendo riferimento al laboratorio tenuto da Fossati presso l’Ateneo genovese dal 2016 al 2018, dal titolo “Linguaggi, figure professionali e meccanismi produttivi della canzone”.

Ed ora lì, dopo la pausa per la pandemia, nell’aula San Salvatore di Sarzano dell’Università di Genova, nel cuore antico e autentico della città, Ivano Fossati ha ricevuto la laurea honoris causa in Lettere moderne e spettacolo.
Prima di dare la parola al neolaureato, il saluto di Duccio Tongiorgi, direttore del Dipartimento di italianistica, romanistica, antichistica, arti e spettacolo, e la “Laudatio” affidata al Preside della Scuola di Scienze umanistiche, il musicologo Raffaele Mellace.
“All’arido elenco di gesta, ho preferito la forma artistica dell’acrostico” ha detto il professor Mellace : 7 parole che rimandano a 7 mondi espressi dal “candidato” alla Laurea ad honorem “per attraversarli con qualche consapevolezza”. Li riporto in sintesi.
F come FIATO, l’elemento essenziale della musica e del canto.
O come ORCHESTRA, l’importanza dello strumentale nella ricerca di Ivano Fossati, polistrumentista, collezionista di strumenti
S come SCRITTORE, l’immaginario poetico che abbiamo interiorizzato
S come SUONO, un timbro e un sound inconfondibile, pacato, introspettivo con impennate melodiche
A come ALTRI REGISTRI, dal piano pianissimo alla vitalità ritmica
T come TEATRO, un artista che vive di lenta costruzione, che si sgancia dalla macchina della produttività forzata per vivere il proprio flatus artistico in un’altra dimensione, rinunciare ad alimentare l’illusione dell’eterna giovinezza
I come IDEA osservare prima di raccontare: prima che con il talento, le canzoni si scrivono con gli occhi.

Dopo la laudatio, la vestizione di Fossati, la formula di rito, ecco l’attesissima lectio magistralis. Il titolo è “Ispirazione, pensiero e sintesi nella musica discografica” e comincia con questa frase: “L’ispirazione non ha limiti” ed è il filo conduttore del discorso di Fossati durato una ventina di minuti. In questo territorio "sconfinato" arriva il "miracolo della riproduzione", la prima tecnologia discografica alla fine dell’Ottocento, il fonografo:
“Doveva sembrare un miracolo portarsi a casa le grandi orchestre, le arie d’Opera, i più celebri cantanti lirici, ora siamo assediati dalla sovrapproduzione di musica o di qualcosa che vorrebbe somigliarle. E’ anche troppo. Quell’antico stupore non lo possiamo nemmeno immaginare. Le arie d’Opera vengono mutilate per poter essere contenute nei fatidici quattro minuti. Via l’introduzione orchestrale, via gli interludi, spesso via anche parti cospicue della composizione, si salva solo quello che tutti conoscono, l’aria celeberrima che a casa la gente canticchia con le parole sbagliate dentro la vasca da bagno. Di conseguenza in quel periodo si produce un gran numero di dischi che fanno inorridire gli intenditori, ma accontentano i primi audiofili di bocca buona che faranno il successo dell’industria discografica che sta nascendo. Gli autori di canzoni, allora si diceva canzonette, erano musicisti preparati, venivano dal Conservatorio, avevano in mente la canzone declinata come un’opera lirica in sedicesimi, le partiture con lunghe introduzioni orchestrali, lunghe strofe, brevi interludi e poi la parte centrale che qui, da noi, chiamiamo ritornello, o meglio, chiamavamo ritornello, seguito da ripetizioni e pomposo finale. Questi autori però non si fanno grossi problemi se la canzone viene tagliata nella sua versione discografica.

Nasce così il primo patto degli artisti con l’industria e il patto è sacrificio e asservimento dell’ispirazione in cambio di notorietà e possibilmente di ricchezza, una sorta di patto col diavolo, ma io mi permetto di avere qualche dubbio in proposito, ma ci arriveremo più tardi…

Tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta del secolo scorso accade qualcosa di mai visto prima, l’incontro-scontro (oggi si direbbe la tempesta perfetta) fra una nuovissima tecnologia, il disco microsolco a 45 giri, la riverberazione massiccia attraverso l’Inghilterra, di molta musica del Sud del mondo, soprattutto il blues che è il padre di quasi tutta la musica discografica leggera, una nuova generazione di musicisti autori, autodidatti, spesso di grande talento e grande determinazione che però, la porta di un Conservatorio, non l’ha mai varcata.
E’ curioso che la musica del Sud del mondo ci sia arrivata dall’Inghilterra, il rhythm’n blues ha preso forza in Europa e soprattutto qui da noi fra il 1968 e 69, mentre già nel ’62 i musicisti inglesi portavano verso di noi il blues.

Adesso il tempo disponibile su disco scende addirittura a 2 minuti e mezzo. Utilizzano slogan, crasi, espressioni gergali e invenzioni fonetiche. La sintesi nelle primissime canzoni dei Beatles è da manuale, nessuna parte necessaria viene tralasciata, tutto è fulmineo, organico, simmetrico, in una parola efficace. La musica nera che hanno molto ascoltato è una grande scuola di sintesi e nelle loro canzoni ce n’è più di una traccia. Il resto viene dal talento e dalla curiosità. Qualche anno fa con il professore Ferdinando Fasce abbiamo fatto una piccola ricerca, eravamo curiosi di capire quanta musica nera ci fosse nelle canzoni dei Beatles che apparivano, appaiono, come la cosa più inglese che si potesse immaginare. Ebbene, un quinto delle loro canzoni sono innestate sopra un impianto di musica che deriva dal blues, basti pensare a titoli come “Come toghether”, forse la canzone più nera che abbiano scritto, a “Taxman” che è un vero rhythm ‘n blues. Così il pensiero viene addomesticato dall’intelligenza, costretto ad abitare in spazi ristretti. Anche artisti come Bob Dylan e Paul Simon, soprattutto all’inizio, combattono la loro battaglia contro il tempo e allora cambiano la forma canzone dall’interno, dal contenuto, con la forza dell’ispirazione e del pensiero che la sovrasta. Gli artisti, i migliori, i più grandi hanno sempre guardato verso l’alto. Le loro biografie e le confessioni fatte a vario titolo sono piene di riferimenti alla letteratura e alla poesia, quasi tutti citano un ispiratore, una guida: Faulkner, Kerouac, Ferlinghetti, Gregory Corso, chi si dice folgorato da Henry Miller e chi da Céline. In tanti, uomini e donne, ammettono di dovere qualcosa alla scrittura asciutta e diretta di Hemingway. Paul McCartney mentre scriveva “Lady Madonna” sappiamo che frequentava i concerti di musica contemporanea, per esempio la musica di Luciano Berio, il leader degli Who, Pete Thownshend, mentre faceva a pezzi la chitarra sul palcoscenico per la gioia del suo pubblico, si faceva ispirare quasi in segreto dalla musica minimalista di Terry Riley e Jimi Hendrix da Stravinsky. Di questa ispirazione rimane sempre una traccia nitida, l’ispirazione piove dal cielo sì, ma occorre essere pronti e curiosi e guardare verso l’alto.

Per me, invece, quando avevo 18 anni c’è stato Cesare Pavese col suo sguardo modernissimo, quasi cinematografico sulle cose, con i suoi scenari allargati, le colline delle Langhe filtrate attraverso tanta letteratura americana che lui amava, descritte col grandangolo, vaste come scenari alla Joseph Conrad, vaste come in fondo non erano mai state. E poi George Simenon che non ha troppo tempo per gli aggettivi e ci concede per immaginare le sue ambientazioni solo brevi tratti di penna e di colore, il lavoro lo fa fare a noi che leggiamo. È tutto perfetto, funziona, noi immaginiamo e vediamo come vuole lui, è una grande lezione per un narratore da tre minuti, come sono anch’io e quella di Simenon è esattamente la tecnica delle canzoni. Non c’è spazio in 3 minuti e mezzo per dire tutto, bisogna fare dei tratti e dei tagli che aiutino l’immaginazione degli altri, tu scrivi ed è il pubblico che costruisce. Mi viene in mente “Eleanor Rigby”, ma non lo sa neanche McCartney cosa vuol dire, non lo dico io, l’ha detto lui. È un’associazione di idee, ma è perfetta, ed è talmente giusta ed evocativa, che noi ci abbiamo lavorato sopra per cinquant’anni e ognuno di noi l’ha vista a modo suo. Per fortuna non è stato mai fatto un video, perché il video che ci siamo immaginati noi è molto meglio e soprattutto è personale, per ognuno di noi è diverso. Quello è il mestiere che bisogna saper fare, scrivere pochissimo e lasciare immaginare molto.

E poi, per puro esempio, voglio citare anche uno scrittore più vicino a noi nel tempo attuale, Irvine Welsh, che mostra magistralmente solo il necessario ma efficacemente, anche quando il necessario deve essere duro, intricato, turpe, cinico, sarcastico insieme. Anche Irvine Welsh è di grande utilità, dato che oggi tutti noi parliamo più come lui che come Dostoevskij. E il linguaggio si modifica rapidamente, giorno dopo giorno. “Il segreto di annoiare sta nel dire tutto” sono le parole di Voltaire che bisogna tenere a mente, soprattutto quando sappiamo che la musica è un nastro trasportatore che non aspetta.

Metodi di sintesi letteraria musicale li ho sempre personalmente ricavati dai nostri dialetti e dalle lingue diverse dalle mie ritraducendo poi in italiano. Le espressioni napoletane messe in musica si prestano a rapide dolcezze carezzevoli, il nostro caro genovese, utilissimo nella ricerca di forme stringate, è lapidario e sarcastico insieme. Le formule di costruzione semantiche dell’inglese risultano quasi sempre scorrevoli e adattabili, anche se con il rischio di qualche eccessiva semplificazione e poi c’è il portoghese, una delle lingue più musicali che si conoscano, che dal suo interno offre soluzioni inaspettate di grande aiuto. Il nostro italiano è amabile, completo ricchissimo di sfumature e di profondità, ma spigoloso e non sempre è amico della metrica musicale più attuale. Sappiamo che garantisce bellissimi risultati solo a costo di cura, inventiva e laboriosità.

E veniamo a oggi. Oggi nemmeno la tecnologia digitale ha vinto sulla durata della musica, adesso che quest’ultima non avrebbe più limiti, nessun network trasmetterebbe brani di 6/7 minuti o più. In rete è diverso, ma nella pratica produttiva comune poco è cambiato, e forse è un bene, dico io. La musica che può permettersi spazi più ampi è un’altra, è differente, ha altre strutture e obiettivi diversi. E intanto, la lunga marcia della musica proveniente dal Sud del mondo si può considerare conclusa, la black music ha vinto quasi su tutto, ha arricchito, impreziosito, snellito le nostre modalità espressive, le classifiche sono dominate dal rap in tutte le sue forme, e da un r’n’b che col rhythm ‘n blues delle origini non ha niente a che fare o poco. La capacità fonetica, vocale di alcuni rapper a volte è notevole, agiscono sul ritmo come percussionisti, scomponendo il tempo e creando fra il significato e il suono delle parole vere e proprie poliritmie complesse. Mi chiedo cosa ne penserebbero i futuristi. Marinetti, ascoltando il rap si sentirebbe finalmente appagato? Chi può escluderlo? Questi generi musicali, figli e nipoti del blues, della black music, con influenze latine e caraibiche, si fondono e si influenzano a vicenda, accerchiano e assediano anche la forma canzone che conosciamo e la canzone si concede volentieri a questa trasformazione, lascia entrare dentro la propria struttura modalità e linguaggi differenti, non nuovi però, perché il rap viene da lontano e non è certo una moda del momento. Anch’esso si modificherà, già adesso si lascia integrare da forme ritmiche e melodiche di origine orientale e maghrebina, ma è qui per restare.

Se oggi penso alla trasformazione della musica e dell’ispirazione che la genera, in prodotto discografico, in emozione portatile istantanea come un file digitale, allora penso a quel maestoso insieme, rotolante, in continuo movimento, fatto di alto e di basso, di musica sublime, di arte, di idee folgoranti, letteratura, di parole toccanti che ha sempre condiviso il proprio cammino con tanta piccola musica forse insignificante e presto dimenticata. E’ quell’insieme, quel tutto, il prodotto meraviglioso di cui parliamo. Musica alta, musica leggera e musica leggerissima: io ho amore per tutte. Quell'insieme rumoroso, chiassoso, incessante, che ci ha cresciuti e che ci accompagna, ci spinge avanti guardando verso l'alto, al nostro posto, soprattutto quando noi ci stanchiamo o non siamo più capaci di farlo. Musica e pensieri nati per essere commercializzati e per fare soldi, che tuttavia dall’interno di un enorme ingranaggio, sono in grado di mostrare i cieli più alti, di mettere le anime a nudo, di insegnarci qualcosa, passo dopo passo, e senza l’aria di volerlo o di poterlo fare. Se questa meraviglia è il risultato del patto fra gli artisti e l’industria discografica e se, come si dice, in questo patto faustiano c’è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l’industria sia il diavolo, sarebbe un diavolo perdente. L’ispirazione è ancora lassù al suo posto, integra, fulgida, pronta a tutto come sempre, pronta per nuove generazioni di artisti visionari, mentre l’industria, dobbiamo riconoscerlo, ha conosciuto tempi migliori. Per questo ho il sospetto che nel vecchio patto, ispirazione e talento, in cambio di fama e denaro, la parte del diavolo astuto l’abbiano fatta in realtà e di certo inconsapevolmente gli autori e gli artisti, proprio tutti, i grandi e i dimenticati. Ho il sospetto che quel lontano giorno, per una volta, forse, il diavolo eravamo noi".

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