martedì 30 settembre 2014

Cristina Donà, la madonnina con la chitarra

(Intervista con Cristina Donà, gennaio 2011, a proposito del disco "Torno a casa a piedi").





Un nido tra l'azzurro e le montagne, la banda passa nella Fiera dei miracoli, un omino percorre 20 chilometri al giorno solo per cantare e la musica riaffiora (ed ora che esce il nuovo disco, riaffiora anche questa intervista).



Tornando a casa, alle origini della tua musica, cos’è cambiato da allora, quando pensavi e lavoravi al primo disco?
Quando ho cominciato arrivavano prima i testi, mentre la voce e tutto il resto passavano in secondo piano. Ora sono diventata un’ascoltatrice più attenta e non è un caso che in questo disco gli arrangiamenti siano più complessi. Sarà per quest’aria pesante che si respira, ma la mia ambizione come musicista è di portare più luce e leggerezza in quello che scrivo. A livello energetico cerco qualcosa che mi dia la carica ed evito tutto quello che rischia di appesantire. Non so se posso metterlo a pieno titolo nella casella dei cambiamenti, ma questo è il mio modo di vivere la musica adesso. Quest’apertura in parte la devo a Saverio Lanza, musicista e arrangiatore bravissimo con il quale ho anche condiviso la scrittura di alcuni brani. Avevo bisogno di dare una nuova veste sonora  al mio modo di fare musica e Saverio mi ha svelato un mondo di colori e sfumature a livello armonico sia negli arrangiamenti che negli strumenti usati.


Cos’è che appesantisce?
Non sopporto l’autocompiacimento nel portare avanti un discorso distruttivo, come quelli che nelle canzoni si piangono addosso. Non dipende da quello che scrivi, ma dalla sincerità con cui lo fai e l’energia che ci metti.  Per piacermi, la canzone deve arrivarmi con un’espressività forte. Al contrario, mi appesantisce la musica che è fatta solo con le tabelline, il ritornello qua e la strofa là, canzoni inutili per le mie orecchie. Quella musica mi ha sempre annoiato a morte.

E cos’è cambiato intorno alla musica?
Innanzitutto il modo di fruirla, oggi ci sono gli mp3 e quando ho iniziato c’erano i vinili, ma con questo non voglio fare la nostalgica. Dico che probabilmente questo influisce sul mio modo di scrivere, attraverso la ricerca di un linguaggio che possa arrivare immediatamente, senza dire cose scontate o banali.

Puoi parlarmi ancora di questo “feeling energetico”?
Un esempio di energia positiva è l’ultimo singolo dei Verdena. Ammiro molto chi sa affrontare il tema della leggerezza con profondità e loro sono credibili, molto espressivi. Mi viene in mente anche Joan As Police Woman, un’artista straniera che amo molto e che aderisce perfettamente al mio modello ideale, la sua malinconia mi arriva con potenza.

Questo passare da un inizio di stampo decisamente rock all’ampliamento dell’orizzonte melodico è per molti una svolta radicale. Intanto definiamo cos’è rock.
Il rock è un’attitudine. Inizialmente era chitarra distorta, basso potente e un’altrettanto potente batteria. Adesso per  me è energia allo stato puro che continua ad esprimersi nel live più che nel disco, è qualcosa da gustare in presa diretta. La parola rock è sicuramente ancora legata ad una tipologia di strumenti, ma anche la semplicità di chitarra acustica e voce può essere rock. Direi allora che se si lega agli istinti primordiali e alla prepotenza di un’energia che non viene incanalata o imbrigliata, qualsiasi musica può essere rock. Certo, cambiando si rischia di perdere qualcuno per strada, ma l’arricchimento che ne traggo lo metto tra le priorità.


Anche il tuo approccio vocale non è più lo stesso?
Pur riconoscendo quell’ingenuità che ti fa tirar fuori cose che non torneranno più, rispetto agli esordi ho fatto una ricerca di cui posso ritenermi soddisfatta. Ho iniziato musicando i miei versi, priva di grandi idee melodiche perché mi mancava proprio quel tipo di ispirazione, non mi interessava. Piuttosto, cantavo dei testi intonandoli su una, due note. Sai, quando fai parte di un circuito underground lo spirito è quello di andare contro la tradizione, vorresti scardinare tutto, ricodificare. Poi col tempo e suonando sempre di più, ho sentito l’esigenza di trovare una melodia vocale, di far cantare la mia voce. Un desiderio di andare verso la melodia che è nato, a dire il vero, già col mio secondo album, “Nido”. Ora voglio dare sempre di più alla musica la possibilità di ispirarmi un testo, quando sono le note a suggerirti alcune parole e non altre. Ho scoperto che abbiamo dei maestri come Battisti, Fossati, Conte, con cui sono cresciuta, ma anche Battiato che ha unito testi surreali a delle melodie molto forti. Insomma, sono tornata all’ovile, forse per una questione di orgoglio patriottico.


Giusto in tempo per i 150 anni dell’Unità d’Italia…
Amo questo paese, non fa tutto schifo. Se voglio esportare qualcosa di mio, voglio che sia italiano. Forse è anche una questione anagrafica: ho 43 anni e prima il mio modo di fare musica era anche espressione dei miei gusti e degli ascolti legati ad un’altra età.
Nei nuovi brani possiamo rintracciare delle influenze dirette dei “padri” che hai nominato prima?
Avevo sicuramente in testa il mondo delle sigle importanti della televisione degli anni Settanta che io conservo come patrimonio genetico, quando la musica in televisione non era affatto una cosa leggera, ma era scritta e arrangiata da maestri con i fiocchi. Penso ad alcune orchestrazioni di “Un esercito di alberi” e “Torno a casa piedi”. Invece, fin dalle prime note, “Miracoli”, che poi è diventata il singolo per le radio, mi aveva fatto venire in mente che poteva essere arrangiata un po’ con lo spirito bandistico di brani come “La banda” di Mina o “Ma che musica maestro” cantata da Raffaella Carrà. Invece, “In un soffio”, come atmosfera e come portamento un po’ in levare, mi ha fatto subito pensare ad “Azzurro” di Paolo Conte.


Con la canzone  “Giapponese” hai fotografato un ritmo e uno stile di vita molto precisi.
E’ un brano nato da diversi input e questa schizofrenia è entrata nella canzone. Lo stesso disorientamento lo vivo nel quotidiano, nell’attesa e nel frastuono legato al traffico e al consumismo. Giapponese è il personaggio che incarno quando mi introduco nei centri commerciali, quando riprendo a frequentare la città. Vivendo ormai fuori da vent’anni, in un piccolo paese di montagna, l’impatto con i suoi ritmi è sempre forte. Tante cose della città mi piacciono, non sono una che la rinnega e continuo ad andarci tutte le settimane, ma è difficile viverla, non solo per le questioni legate all’inquinamento e al modo di fare di noi comuni mortali, ma a causa di chi le gestisce queste città. Milano potrebbe essere molto più bella, non è da demonizzare, il problema è che non è gestita bene. Insomma,  volevo che il messaggio arrivasse anche in modo scanzonato, una conversazione ipotetica con un’amica con la quale ti confronti e cerchi di capire come gestire le distanze che in città ti mettono sempre a dura prova, il traffico, il parcheggio, e tutto il resto. Non avevo raccontato mai questo mio aspetto urbano e questo brano mi ha dato la possibilità di farlo. Poi c’è un motivo strettamente legato alla parola “giapponese” che mi consentiva di descrivere questa velocità, perché nel mio immaginario le metropoli giapponesi sono quelle che hanno i tempi più frenetici. La prima approvazione è arrivata da mio figlio Leonardo di 5 mesi e lui, ogni volta che gli sussurravo giapponese, si faceva le sue prime grandi risate. Così, un po’ per scherzo, quando ho mandato il provino a Saverio Lanza,  ho messo dentro questa cosa del giapponese, confidando che potesse essere un’idea forte alla base della canzone…. Nell’arrangiamento, Saverio ha sottolineato questa successione di tanti input che poi convergono in una musica più lineare, nonostante ci siano degli archi un po’ schizzati, dei pianoforti che non sono proprio ortodossi. Questo la rende una delle mie preferite dell’album e piace tantissimo ai bambini, segno inequivocabile di qualcosa che funziona.

Quindi la città del centro commerciale non è il tuo ideale…
Non è il mio luogo ideale ma si possono trovare degli spunti interessanti. Se ho una giornata libera non vado al centro commerciale, però mi diverto ad osservare e mi chiedo come si possa passare la domenica pomeriggio in un luogo così. Tanti lo fanno perché è diventato la piazza-mercato di una volta, ma è alienante. E soprattutto è preoccupante il fatto che si trovi sempre qualcosa da comprare, perché se finisci lì dentro, non esci mai a mani vuote.

“Tutti sanno cosa dire”, invece, a chi è dedicata?
C’è sicuramente il riferimento alla persona che stimo e ammiro di più, mio marito Davide, con cui ho condiviso gran parte della mia vita. E’ per me l’esempio di chi fa le cose con una certa coerenza. Ma non c’è solo lui, ci sono tante persone che portano avanti un discorso di credibilità e autorevolezza in quello che fanno e sono in qualche modo sommersi, penalizzati in una società in cui, invece, vince sempre chi fa finta di avere le idee più chiare e chi urla di più. Il modello televisivo purtroppo la fa da padrone, in tv vediamo un’ostentazione di sicurezza su tutti gli argomenti, soprattutto in politica. L’invito a mettersi in discussione, che è una pratica secondo me tanto importante per gli esseri umani, non viene mai in mente a nessuno. Dal mio canto, ammiro molto chi approfondisce, chi sa appunto anche mettersi in discussione, così ho voluto raccontare a mio modo il disagio nei confronti di questa prepotenza che non condivido. Un inquinamento mentale, una pratica nociva che, a mio modo di vedere, si aggiunge a tante altre.

In “Miracoli” ci sono due citazioni,  una a proposito di un film di David Lynch, l’altra riguarda la poetessa polacca premio Nobel, Wiesława Szymborska. Ce ne parli?
Sono una lettrice disordinatissima però ho dei punti di riferimenti che per me sono intoccabili. Tra questi c’è  la Szymborska e una sua poesia in particolare, “La fiera dei miracoli”. Si vede che ha seminato così bene il suo verbo che quando ha germogliato ha sicuramente partecipato al testo della canzone. L’ altra influenza riguarda Lynch. Amo da sempre le sue atmosfere, i suoi film più lirici, lo stesso Twin Peaks… credo che Lynch abbia davvero creato un linguaggio nuovo. Tuttavia il film che ha ispirato la frase che apre la canzone è “Una storia vera”, il meno astratto e sognante, proprio perché basato, come dice il titolo, su un fatto realmente accaduto. Alla fine della visione avevo preso degli appunti, forse perché con l’andare avanti nella vita ti confronti con tutta una serie di eventi tristi e dolorosi che inevitabilmente ti spingono a raccontare. A proposito di come si è trasformato il mio modo di vivere la musica, ecco ora posso dire che ho cominciato a cantare le cose che mi commuovono, che non devono essere per forza presentate con pesantezza. Alla fine di quella storia ho desiderato sottolineare il gesto di quel pensionato di 73 anni che percorre centinaia di chilometri su un lentissimo trattore tosaerba perché era l’unico mezzo che aveva per andare a trovare il fratello malato. Così tutto quello che viene mosso dall’amore, da qualcosa di spontaneo tra gli esseri umani e che crea gesti straordinari per me è degno di nota in un momento in cui invece si sottolineano solo le brutture e le storture insite nel mondo e nelle persone.

Sta per uscire, per Galaad edizioni, la tua biografia “Parlami dell’universo. Storia di un viaggio in musica” di Michele Monina. Immagino che nel libro avrai dato ampio spazio a questa nuova voglia di raccontare, puoi anticiparci qualcosa?
Innanzitutto, questa voglia di raccontare sta posticipando l’uscita del libro. Ogni giorno me ne viene in mente una, ma niente di eclatante. Con Michele ridevamo proprio del fatto che non ho avuto una vita da rockstar e non posso raccontare di quella volta che sono rientrata in albergo a New York barcollando perché ero ubriaca, però in compenso ho tante cose archiviate sulla scena milanese degli anni ‘90, dove ho mosso i primi passi, grazie a quei musicisti che hanno fatto la storia di quel periodo. Ci sarà l’io narratore di Monina  e tante finestre aperte da me sia sui testi, che sono la parte fondamentale, sia sulla genesi di quella scena musicale, quindi la mia frequentazione con Manuel degli Afterhours e Jo dei La Crus, il ruolo dell’etichetta dei miei primi dischi, la Mescal, che ha avuto veramente a che fare con musicisti e gruppi che hanno reimpostato la musica leggera in Italia. Spesso si nomina Manuel Agnelli perché è stato il mio produttore, ma devo molto anche a mio marito, che ha fatto parte della critica musicale per anni. Lui mi ha presentato Manuel e gli ha proposto di farmi aprire un suo concerto nel 91. Poi i La Crus mi hanno portato in tour con loro per un paio di anni e mi hanno presentato alla Mescal. Sono felice che dopo gli Afterhours, quest’anno sia toccato a loro di andare a Sanremo. Forse, uno alla volta, riusciremo tutti a calcare quel palco.

E perché l’avventura con la Mescal è finita?
Ad un certo punto la Mescal ha venduto il suo catalogo alla Emi, non so se per problemi finanziari o se erano semplicemente stufi di seguire tutto. Non ho mai parlato di questo con Valerio Soave, il capo Mescal, purtroppo non abbiamo più alcun rapporto, perché abbiamo chiuso un po’ bruscamente… Sta di fatto che dall’episodio di rottura con i Subsonica qualcosa si è incrinato, anche il mercato si è ristretto e un’etichetta piccola ha sicuramente maggiori difficoltà a sopravvivere. La Emi ha comprato il catalogo della Mescal, Afterhours e Perturbazione hanno fatto qualcosa e poi se ne sono andati, io ho fatto i miei due album da contratto e adesso vedremo. Però il passaggio è avvenuto con l’appoggio della Mescal, il problema per me è nato su un’incomprensione, un’insoddisfazione rispetto al live che era comunque gestito da una persona collegata all’etichetta.  Non ero più contenta, ho voluto trovare un’alternativa e non ci siamo capiti.

Ci racconti un aneddoto sul tuo incontro con il carismatico Robert Wyatt?
Ci siamo conosciuti nel ’97 al Salone della musica di Torino, complice ancora una volta Davide che all’epoca lavorava per la promozione dei dischi di Wyatt. Era appena uscito il suo cd “Shleep”, un titolo curioso, ma Wyatt in quel periodo era particolarmente insonne e da amante dei giochi di parole, aveva inventato questo incrocio tra sheep e sleep, pecora e sonno. Mi è sembrato da subito una persona molto profonda e attenta a quello che fanno gli altri artisti. Quella sera l’ho invitato al mio concerto. Il suo albergo era all’interno del Salone e così, nonostante la sedia a rotelle, è venuto a sentirmi. Successivamente ha parlato bene di me e nella votazione su Mojo dei dischi del ‘97 il mio era citato tra quelli che gli erano piaciuti di più. Allora ho pensato di coinvolgerlo nella lavorazione dei miei nuovi brani e due anni dopo è nata “Goccia” in cui Robert suona la cornetta e aggiunge suoni con la sua voce.

Qualche anno fa, sempre con Michele Monina,  hai scritto un libro seguendo le tracce musicali dell’America di Springsteen. Quale itinerario sceglieresti per un ideale viaggio in Italia?
Partirei dalla Sicilia e dall’influenza del Mediterraneo, di quelle musiche arrivate dai paesi arabi e poi salirei passando attraverso la Puglia di Modugno, cercherei di studiare quello che c’è stato prima, la miscellanea che si è venuta a creare con l’arrivo degli americani e con l’impatto che la musica anglosassone ha avuto su di noi. Andrei alla ricerca delle mie origini tra Veneto e Lombardia. Sarebbe un libro molto difficile,  mi servirebbero due anni di tour.

Insomma, tutto ci riconduce al titolo che hai scelto per il tuo nuovo disco: Torno a casa a piedi. 
Già, tutto torna... Un primo simbolo forte è l’inizio di “Miracoli”, la canzone che apre il disco. Se ci fai caso, ci sono io che do il tempo e conto fino a 4, mentre di solito si conta all’inglese, one-two-three-four.

Si può quindi dire che è il tuo album più italiano?
Sì e ne vado fiera.

Questo tornare a casa a piedi potrebbe tradursi anche musicalmente in un disco sulle tue origini?
Sicuramente mi trovo in quel momento della vita in cui si ha voglia di fare un bell’albero genealogico. Quando sei adolescente, se non vedi i tuoi parenti diciamo che non ti dispiace, poi arriva il giorno in cui vuoi saperne di più su di te, attraverso il tuo dna familiare e culturale, e cerchi di riappropriartene. Ad esempio c’è una storia bellissima che riguarda il fratello di mio nonno, che ora non c’è più, che cantava nel coro di Adria e questo ragazzo, dopo il lavoro ad Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, andava ad Adria a piedi a fare le prove, 10 chilometri all’andata, 10 al ritorno. Erano talmente poveri che le biciclette sono arrivate dopo.

Non ci sfornerai qualcosa in dialetto?
Con i dialetti sono un disastro, non ne parlo neanche uno, ma se vado avanti di questo passo ci sarà anche un disco in dialetto. Ogni tanto mi butto con Ginevra Di Marco e il suo tour di Stazioni Lunari, ma il bergamasco lo escludo perché è molto lontano da me nonostante io viva qua da sempre, tra Rho e la provincia di Bergamo, in Valseriana, un luogo che prende il nome dal fiume Serio. Non mi sento a mio agio nel bergamasco, quello dei miei genitori, un incrocio tra il rovigotto e il ferrarese lo capisco, ma se lo parlo mi sento ridicola e comunque lo approfondirò. Non saprei quale scegliere, forse il milanese, o i dialetti che mi fanno simpatia, come il toscano e l’emiliano.

Cosa canti in concerto con Ginevra Di Marco?
Ultimamente ho proposto  “I miei sogni d’amore”, un brano di Gabriella Ferri che tra i nomi del varietà degli anni  ‘70 è un personaggio che amo alla follia. Da quando ho scoperto che era anche autrice di molti di quei brani che cantava, mi è venuta voglia di approfondire. Tra i brani in dialetto dove cerco di interagire ma soltanto con le armonizzazioni, senza esagerare, c’è un tradizionale siciliano dal titolo “Amuri”. E poi “Malarazza” di Modugno dove tento di cantare questo strano dialetto che mi intriga. Forse dovrei crederci solo un po’ di più.



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foto di Timisoara Pinto (King Kong, Radio1, 29 settembre 2014)


giovedì 18 settembre 2014

Lavorare con lentezza. Enzo Del Re, il corpofonista



Timisoara Pinto
LAVORARE CON LENTEZZA
ENZO DEL RE, IL CORPOFONISTA


2014, € 25
Formato 14x19, 48 foto in b/n e a colori, pp. 304

In uscita il 29 settembre, acquistalo ora Sul sito dell'editore SQUILIBRI  con il 30% di sconto, a 17,50 € invece di 25 €

Cantastorie e corpofonista, Enzo Del Re è stato l’interprete più autentico di una stagione di impegno civile nella quale le canzoni di lotta e di protesta animavano il sogno di una società diversa. Con uno stile e un linguaggio inconfondibili, schioccando la lingua e percuotendo sedie e valigie o qualsiasi altro oggetto che potesse ritmare la sua urgenza di vita, è stato protagonista di memorabili esperienze culturali e teatrali, da Ci ragiono e canto 2 agli spettacoli con Nuova Scena, il Teatro Operaio e i Circoli Ottobre, per poi eclissarsi nella sua Mola di Bari, mentre il movimento del '77 eleggeva a proprio inno una sua canzone, Lavorare con lentezza. 

Dalla viva voce di quanti lo hanno conosciuto e amato, da Dario Fo a Giovanna Marini, da Antonio Infantino a Vinicio Capossela, da Paolo Ciarchi a Andrea Satta, da Vittorio Franceschi a Piero Nissim, il volume, con un significativo corredo fotografico, ricostruisce la vicenda umana e artistica di un autore così iconograficamente arcaico, eppure straordinariamente contemporaneo, da rappresentare, con i ritmi della sua lingua e della sua sedia, un anticipatore e un archetipo per tanta cultura musicale giovanile di oggi, come il rap e la techno.

Nel primo dei CD allegati al volume, una scelta antologica del repertorio di una voce irriducibilmente contro, mentre nel secondo CD un tributo alla sua memoria da parte di numerosi artisti che, da Vinicio Capossela a Teresa De Sio, da Antonio Infantino alle Faraualla, da Alessio Lega ai Radicanto, dai Têtes de Bois a Tonino Zurlo, hanno rivisitato alcuni dei suoi brani.



... e presto su questo blog anche tanti contenuti extra...


giovedì 22 maggio 2014

Aznavour, 90 anni da istrione


Ci ho pensato un po’, ma proprio non mi viene in mente un altro novantenne ancora in tournée, uno che questa sera deve sgolarsi a Berlino e risparmiare pure un po’ di fiato per soffiare, immagino in camerino, sulla sua scintillante torta di “buon anniversario”.
Oggi Charles Aznavour compie 90 anni. Praticamente una miccia.
L'artista franco-armeno sabato sarà a Francoforte, il 1 giugno a Londra, il 26 a Barcellona e poi, il 1 luglio a Roma, al Centrale del Foro italico, per l’unica data italiana di questo compleanno da record.
Un altro infaticabile, Nicola Di Bari, che per molti aspetti potrebbe essere l’Aznavour italiano, ha appena 74 anni. Paolo Conte, 77, Gino Paoli va per gli 80.
In un’intervista radiofonica della fine degli anni ’60, quando per il pubblico dei giovani capelloni Aznavour era incasellato nella categoria dei “matusa”, il piccolo grande Charles rispose: «“matusa” è un uomo che ha accettato di invecchiare prematuramente. Si diventa “matusa” cercando di scimmiottare i giovani, il segreto è conservare la propria età con una grossa carica di energia».

Il debutto a 9 anni, la svolta nel 1946, grazie all’incontro con Edith Piaf, che affettuosamente lo definiva “il mio genietto balordo”. Di quella riva benedetta, parigina, creativa e poetica, Aznavour è rimasto il solo, tutti i suoi compagni di viaggio sono scomparsi da anni. Sicuramente anche questo contribuisce ad alimentare il fascino e l’attesa di ogni sua esibizione. In Francia è da poco uscita la sua terza biografia “Tant que battra mon coeu”, dopo quelle del 1974 e del 2004, tante come le sue vite, ma è inutile andare a cercare lì grandi rivelazioni sul suo passato. Aznavour aveva un tritacarte micidiale, che utilizzava come macchinetta per sminuzzare e polverizzare i ricordi, per sbarazzarsi di carte, biglietti, telegrammi e chissà di quanti altri documenti utili oggi per ricostruire anche una piccola parte di storia della canzone francese.
E’ appassionato e grande ballerino di valzer, tango e paso doble, ma il suo più grande vanto è di riuscire ancora a leggere senza occhiali. Condensa in questa frase il suo elisir «fai della tua vita un'avventura, sorprendi gli uomini e le donne intorno a te, con umiltà, gentilezza, semplicità».

Malgrado si circondi di band non sempre all'altezza, il repertorio zampilla con l’audacia del più classico romanticismo: «Charles, tu canti l'amore come mai è stato cantato fino ad oggi – gli disse una volta Maurice Chevalier. Con un vocabolario che è quello stesso dei gesti fisici dell'amore. Sei il primo dei cantanti di tutti i tempi ad osar cantare l'amore come lo senti, come lo fai, come lo soffri». La nuova autobiografia pubblicata in Francia dall’editore Don Quichotte non è ancora arrivata da noi, ma con ogni probabilità rispetterà il titolo originale “Tanto da far battere il mio cuore”. Del nostro Paese le uniche cose che scrive nel precedente libro (dato alle stampe in occasione degli 80 anni) sono il ricordo di un bacio in camerino di Gina Lollobrigida accompagnata da Glenn Ford e l’amicizia con Caterina Valente, grandissima artista, ahinoi lontana da anni dai riflettori...
In passato, Aznavour aveva annunciato più volte il ritiro dalle scene: nel 1999, nel 2000, nel 2006, ma il suo sodale avvocato-produttore deve avergli fatto cambiare idea ogni volta, tanto che oggi il grande istrione arriva a dire: “diventerò centenario e canterò ancora". Tra pochi mesi, intanto, saranno cento gli anni trascorsi dal genocidio armeno, una causa che ha visto Shahnour Vaghinagh Aznavourian (il suo nome all’anagrafe) sempre in prima linea. Per quell’anniversario, Charles intonerà le sue canzoni più tristi.









domenica 6 aprile 2014

L’ultima fetta di torta

(da un mio piccolo format radiofonico del 2009
Ospite: Francesco Di Giacomo)


T: Saluto Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Una voce autorevole anche in cucina.

F: Ho solo fatto di necessità virtù. Quando ero ragazzetto mia madre lavorava molto e così mi ha impartito subito alcune istruzioni per cavarmela da solo anche tra i fornelli. Pian piano mi sono appassionato e sì, lo ammetto, mi sono sempre divertito molto a stare dove si cucina…

T: Un piatto della tua infanzia, un sapore impresso nella tua memoria che non hai più potuto gustare..

F: Sono nato in Sardegna, a cinquanta metri dal mare e il pesce era sempre in tavola. La cosa che, però, ricordo con più piacere è la crema... Ora ti spiego. Mio padre era l’amministratore di una grande tenuta del conte Dufour, quello delle caramelle. Ogni tanto si organizzavano delle battute al cinghiale e mia madre dava disposizioni al personale per la preparazione del pranzo e del buffet di dolci.
Noi bambini aspettavamo il nostro turno, quando mamma ci chiamava in cucina per ripulire il tegame della crema pasticcera. Ecco, quel sapore lì, di quel tegamone che sembrava un pozzo agli occhi di un bambino, è irraggiungibile come gusto ed è naturale che sia così.

T: Quando ti sei trasferito a Roma?

F: Nel 1952, all’età di cinque anni, secoli fa…

T: Qual è la ricetta che hai scelto per la radio?

F: Ne avrei tante da suggerire, ma te ne dico una estremamente veloce. Un piatto di orecchiette. Mettiamo sul fondo l’olio, il pomodoro e un po’ di aglio da togliere subito, da imbiondire appena, aggiungiamo formaggio di fossa e della rughetta fresca. Il tutto si amalgama e diventa un piatto principe, eccellente. La rughetta non deve cuocere, dev’essere fresca, buttata lì...

T: Ultimamente è un po’ di moda, ma è un sapore contadino molto antico.

F: Io ho la rughetta nel prato davanti casa mia e c’è un’enorme differenza tra quella che compri e la rucola selvatica. La mia è molto più aggressiva, avviluppante, è un abbraccio forte la rughetta di campo. E’ aspra, ha un sapore più alto. Fondamentale è il formaggio di fossa, dopo averlo fuso con il pomodoro, ne lasci cadere un un po’ a scaglie su tutto il piatto. 


T: Francesco Di Giacomo, voce del Banco del Mutuo Soccorso…

F: Anche “panza” del Banco.

T: Allora voce, panza e… parannanza del Banco. La vostra canzone più legata al cibo?

F: Non c’è una canzone vera e propria del Banco legata al cibo.. mi sembra di no, anche se poi spesso tutte partono dall’osservazione del cibo. Io ho scritto un brano mio, che non ha niente a che vedere col Banco, ma che parla di cibo e dice: “Tu sei piena di rischi e di attesa come l’ultima fetta di torta”. L’ultima fetta è quella che rischia di più, perché tutti la guardano, sono tante le mani, ma lei è sola in mezzo al piatto. Ho voluto fare una similitudine con questa ragazza che vuole proprio starsene per conto suo.

T: E tu la cedi a qualcun altro o provi a conquistarla?

F: E’ lei che decide, piena di rischi e di attesa come l’ultima fetta di torta...

T: L’hai già incisa questa canzone?

F: L’ho registrata per me, per farne un provino.

T: Un brindisi per salutarci?

F: Faccio un brindisi a tutti gli uomini e le donne che si alzano la mattina presto, che accompagnano i figli, che lavorano nonostante tutto, che attraversano la città, che affrontano l’imbecillità di tutti, me compreso, e brindo alla fine della loro pazienza.

T: Grazie Francesco, per la tua ricetta, i tuoi sogni d’infanzia e le tue canzoni.



© Riproduzione riservata
Le foto di questa pagina sono di Paolo Soriani 



lunedì 3 marzo 2014

Galleria delle Armi, 1944-2014
L'assurda tragedia ferroviaria di Balvano

Galleria delle Armi
E’ la lucanologa che vi parla questa notte. Una notte di ferro, di acido e di veleno. Un fiume, un ponte, una trappola nella roccia e intorno buio e silenzio. Troppo silenzio e per troppo a lungo. Solo la certezza di un telegrafo che cinguetta il suo messaggio lampo: “treno partito da Balvano ore 00.50”.
E’ il 3 marzo del 1944 e, a meno di due chilometri dalla stazione del piccolo comune della Basilicata, in una zona nota ai pastori come Contrada Grotta Palomba, si consuma la più grande tragedia ferroviaria della storia. 

Il treno 8017 avrebbe dovuto percorrere altri sei chilometri per raggiungere la fermata successiva, “Bella-Muro” (dai nomi dei due comuni serviti dalla stessa stazione, Bella e Muro Lucano), ma resta intrappolato in una delle trentasette gallerie della linea Battipaglia-Potenza, la numero 20, la più lunga del percorso, poco meno di due chilometri, dal nome tristemente glorioso, “Galleria delle Armi”.
Per l’effetto combinato di monossido di carbonio, biossido di carbonio e carenza d’ossigeno, muoiono nel sonno o nella veglia, oltre 600 persone.
Il primo macchinista, Espedito Senatore
Tutto, in questa tragedia, rimanda ad un immaginario mitico di eroi misconosciuti che popolano una terra che commuove, ma ancora sfugge alla storiografia ufficiale. A partire dal primo macchinista, Espedito Senatore, vero uomo-treno, una immedesimazione pressoché assoluta con la propria locomotiva, la macchina pulsante, mito di progresso di Gucciniana memoria.
All’alba del 3 marzo, Espedito fu ritrovato al suo posto di comando, con il regolatore aperto, nel suo estremo tentativo di chiedere alla macchina il massimo sforzo. Aveva fatto appena in tempo a spingere Luigi Ronga, il suo fuochista, giù dal predellino, dicendogli di mettersi in salvo. Quando arrivarono i primi soccorsi, molte ore dopo, Ronga se ne stava accucciato e tramortito in una cunetta dove un miracoloso rigagnolo di acqua gli aveva salvato la vita. 

Dire, come concluse l’analisi tecnica, che l’incidente fu causato dall’arresto del treno nel tunnel, è come il referto del medico quando parla di morte provocata da arresto cardiaco.
Le cause di questa terribile sciagura ignorata e rimossa, finita nel grande calderone di una guerra da cancellare al più presto, “tecnicamente” sono molteplici.
La Galleria delle Armi, umida, buia e scarsamente ventilata, è scavata sulla sagoma di un treno e lo avvolge come fa il fodero con la sua scimitarra. Tra le pareti della locomotiva e quelle delle galleria lo spazio di pochi centimetri.
La lunghezza eccezionale del convoglio, 479,30 metri, che finisce la sua lenta processione a un chilometro e mezzo dall’uscita del tunnel, arrendendosi per carico, massa trainata e pendenza del 14 per mille.
Uomini in servizio da molte ore, con la loro dose di gas tossici già incamerata nelle gallerie precedenti a causa della pessima qualità del carbone fornito dagli alleati, con resa termica di gran lunga inferiore rispetto a quello di provenienza tedesca, utilizzato fino al settembre del 1943.
Il peso delle merci trasportate e dell’elevato numero di persone salite a bordo, “più o meno regolarmente”, avrebbero dovuto imporre un diverso posizionamento delle due locomotive che, invece, viaggiavano accoppiate alla testa del treno 8017, esercitando la trazione in maniera sbilanciata.

Di fronte all’impossibilità di marciare in avanti, Espedito Senatore decise di retrocedere perché più vicino all’imbocco sud della Galleria. Il macchinista della seconda locomotiva, Matteo Gigliano, ritenne invece che c’era bisogno di un’ulteriore spinta. Il colpo di grazia lo diedero i frenatori, attenendosi all’articolo 12 comma 3, dell’ “Istruzione per il servizio del personale di scorta ai treni” che recita i “doveri circa l’uso dei freni”.
Sempre per l’obnubilamento generale e la paura che, arretrando, il treno potesse acquisire velocità, perdere aderenza e finire fuori controllo, i frenatori non sospettarono minimamente che la retromarcia fosse un atto intenzionale, nonché l’unica fuga possibile. Inchiodarono così, per sempre, il loro destino a quei binari.

Come se non bastasse, mentre la 480, costruita in Italia, aveva la guida a sinistra, la seconda locomotiva, la 476, era di fabbricazione austriaca, con il macchinista sul lato destro. Visibilità zero e possibilità di lanciarsi dei segnali non contemplata.
Nella Galleria delle Armi, trasformatasi in una camera a gas, nessuno fu in grado di esercitare le sue funzioni ed Espedito e Matteo, svolsero l’ultimo eroico servizio della loro vita, sui finestrini opposti del treno, senza la possibilità di comunicare.

Nelle stazioni tutto tace e i responsabili si addormentano al caldo, qualcuno chiude un occhio. Al “partito” telegrafato dalla stazione di Balvano non seguirà mai la risposta “giunto”. La macabra scoperta del treno e del suo carico senza vita avverrà solo con le prime luci dell’alba, mentre il carico di responsabilità giace nelle zone telegrafiche mai esaminate, vere e proprie scatole nere degli incidenti ferroviari.


Diversi giorni dopo, sul “Times” di Londra, si parla di “guasto ad un treno nel centro-sud dell’Italia”, di “Disastro a sud est di Napoli” sulla Gazzetta del Mezzogiorno. La faccenda è liquidata e archiviata sommariamente anche da chi poteva arrivarci, se non altro, per affinità geografica e territoriale. 
Pendolari della fame e della disperazione, della povertà e dall’abbandono, che dalla Campania e, in particolare, dalla provincia di Salerno tentavano, attraverso la ferrovia, di raggiungere la più felix Lucania, con le sue campagne fertili, le masserie isolate scampate al saccheggio, i maiali, i fagioli, le cicerchie, le uova, un po’ di ricotta e il grano, nell’unico baratto di sussistenza possibile, per chi a Napoli e dintorni non aveva più nulla da cercare, niente più niente da mangiare e, in cambio, poteva offrire solo un pugno di chiodi per le scarpe.
Più di una volta, il primo macchinista Espedito Senatore era dovuto intervenire a difesa dei suoi passeggeri, per evitare che le forze dell’ordine sequestrassero i generi alimentari faticosamente racimolati per sfamare i figli rimasti a casa.

Ho percorso molte volte quella tratta ferroviaria, su moderno Intercity o Regionale, e le fermate sono le stesse di quel 3 marzo di settant’anni fa: Picerno, Baragiano, Bella-Muro, Balvano-Ricigliano e poi Eboli, Battipaglia, Salerno. E’ un binario unico, da percorrere almeno una volta nella vita. Basta verificare che per la corsa prescelta, ci sia proprio il treno e non, come accade sempre più di frequente, il pullman del servizio sostitutivo.

Purtroppo, ho visto filmati giornalistici che la bollano come una delle tratte peggiori d’Italia, per lentezza, ritardi, disservizi, carenze di varia natura. Persino Legambiente, nel suo dossier “Pendolaria 2013”, la colloca al decimo posto della classifica delle linee ferroviarie più disastrate. Bastava chiamarle: linee da preservare, valorizzare, a sottolinearne fascino e potenzialità.

Oggi, in una pubblicità televisiva, parlano di Balvano come di una grande fabbrica di merendine ma, per me e per molti, Balvano è uno dei paesi lucani più colpiti dal feroce sisma dell'Irpinia (a proposito di tempismo e organizzazione dei soccorsi).
Tante le gallerie che ti catapultano in una natura altrimenti nascosta e irragiungibile, a pochi centimetri dal fiume Platano che la insegue e dalle pareti a strapiombo, imponenti e brulle, di montagne e canyon.
Solo la ricostruzione del post terremoto dell’80 è riuscita a fare danni sul percorso, non lasciando traccia delle originali costruzioni liberty a due piani, sostituite brutalmente da anonimi e desolati fabbricati senza più la dignità di “stazione”, ma declassati al rango di “fermata”.

Balvano (fermata)

Ad un certo punto, esattamente una decina di anni fa, il nome Balvano è apparso sulla copertina di un libro di un avvocato romano, Gianluca Barneschi che, a sua volta, da almeno dieci anni, dopo aver letto notizia di questa strage silenziosa su una rivista dedicata ai treni, tentava di far luce sulla notte più nera del vapore ferroviario. Barneschi parlava anche di un cantautore texano, Terry Allen, che si era appassionato alla vicenda leggendo un giornale americano, e aveva composto la ballata “Galleria delle Armi” (anzi, "Galleria dele Armi", per il classico errore di pronuncia). Ci feci subito una puntata di Radioscrigno.

Esce oggi una nuova edizione del libro, “Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso”, frutto di ulteriori ricerche di Barneschi negli archivi di mezzo mondo, di acquisizione di documentazione rimasta a lungo secretata, di nuove interviste ai parenti delle vittime e ai pochi sopravvissuti. Un intero capitolo è dedicato, inoltre, a un clamoroso colpo di scena. Ne parlerà direttamente l’autore, sabato 8 marzo, in occasione della presentazione del libro al Museo Provinciale di Potenza.


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domenica 23 febbraio 2014

A certe altezze... (Dedicato a Francesco Di Giacomo)



Non ho mai pianto e riso insieme così tanto. Francesco Di Giacomo, una delle voci più belle della storia del pop-rock italiano, aveva un cuore grande ed era una spalla formidabile, nel senso comico e filosofico della vita. Mi aveva adottato. Undici anni fa, prima di conoscerlo, sulle pagine degli Spettacoli di un quotidiano, scrissi che era il “barbone” più elegante della scena musicale. Non l’aveva dimenticato e, quando per la fretta usciva con il maglione sbagliato o la camicia non stirata, lo ripeteva alla sua amata Antonella: “Sai cosa ha scritto Timi di me? Cercava la mia complicità, specie da quando la grande famiglia di “Stradarolo” (il meraviglioso Fesival di “arte su strada” di Zagarolo e Genazzano ideato e diretto dai Tetes de Bois) mi aveva accolto, e mi diceva: “tanto prima o poi, dopo una bella cena, a Satta je meniamo tutti insieme!”. Ecco, appunto, Andrea Satta, al mio fianco, rimasto senza padre, il 21 febbraio 2014, per la seconda volta. Andrea guardava a Francesco come a un faro, come a un gigante buono che splendeva e che doveva splendere ad ogni costo, ma anche come a un bambino “con la barba piena di zucchero a velo”. Insieme sembravano Tom e Jerry, nei loro occhi il guizzo e il furore, la lampadina che si accende e improbabili impalcature che crollano e, sotto, loro due che, resistenti a tutto, si proteggono non perdendosi mai di vista.
Set del "Film a Pedali" di Agostino Ferrente (foto T. Pinto)
Quel poco che ho descritto spiega il perché di tante acrobazie, la voglia di dare a Francesco sempre il piedistallo più alto, la ribalta metafisica che ne
mostrasse inequivocabilmente il genio e la sregolatezza, la forza magnetica e il dolce sguardo, il piglio intriso di animo popolare e il dettaglio del fuoriclasse, le sue comiche incazzature e la sua repentina capacità di recuperare con ironia. Nel 1994, il 14 luglio, ad un anno dalla morte di Leò Ferré, Andrea chiese a Francesco di presentare il primo cd autoprodotto dei Tetes de Bois. Era un disco dedicato ai loro amori francesi, primo fra tutti Léo.
Fu uno show case itinerante, a bordo del tram numero 30, una vettura degli anni Venti in regolare servizio che portava la bizzarra compagnia, mischiata ai romani e ai turisti, in giro da Porta del Popolo a Porta Maggiore a Porta San Paolo. Di Giacomo, seduto al posto del bigliettaio e in divisa da vero tranviere, rispondeva alle richieste delle ignare vecchiette munite di trolley per la spesa, leggendo pagine da “Sputerò sulle vostre tombe” di Boris Vian. Tutto regolarmente organizzato con le necessarie autorizzazioni e persino uno sponsor, la libreria “Rinascita” di via delle Botteghe Oscure, con il suo direttore storico, Urbano Stride, che li seguiva in motorino.

Un’altra volta, a Stradarolo 1998, Andrea gli affidò una corriera anni’60, di quelle con lo spazio per le valigie sul tetto e il vetro anteriore diviso a metà. Mentre il conducente faceva il giro della campagna romana, da una strada consolare all’altra, Francesco era ai fornelli a cucinare bucatini all’amatriciana, minestra di fagioli e carciofi alla romana per i “viaggiatori” del Festival.
Nel 2001, di nuovo insieme, sulla Ferrovia dell’Allume, il paesaggio lunare della Tuscia, impreziosito da piccole stazioncine liberty abbandonate. Francesco questa volta, era su un bidone di benzina, piazzato sui binari della fermata fantasma di Civitella Cesi, provincia di Viterbo, a leggere “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. In un’altra stazione del percorso, nel 2007, ad Allumiere, per una tappa del tour “Avanti Pop”, a raccontare la magia del tempo e dell’umanità sul cassone di un Ape verde petrolio.

Di nuovo, nel 2007, sul tranvetto del 1924 che, dalla Stazione Termini, attraversando la periferia est di Roma, dal Mandrione al Pigneto, al Casilino, fino a Pantano Borghese, ben oltre il Racconto romano, dove forse un giorno vedremo comparire la moderna metropolitana, Francesco, alloggiato nella sua postazione in carrozza, leggeva Pasolini per uno spettacolo della Notte Bianca, che i Tetes, con la solita testa situazionista, hanno chiamato “Tramiamo”.
Set del "Film a Pedali" (foto T. Pinto)

Una postazione “Di Giacomo” era sempre prevista a Genazzano, durante “Stradarolo”, dove, capando cicoria e fagiolini per le signore dei vicoli, declamava Trilussa. Ricordo Francesco inseguire Andrea sul ponte “tibetano” in val Di Fassa, in una scena del “Film a pedali”, tra le macerie dell’Aquila, sull’ammiraglia della Transumanza a pedali, seduto come il Dalai Lama su un risciò pedalato da Andrea che, dopo pochi metri dalla partenza, non avendo calcolato la larghezza posteriore, ha finito la sua corsa incastrato nell’uscita della Fortezza Da Basso di Firenze.  

Nel settembre del 2004, al concerto dei Tetes de Bois, in piazza dei Cinquecento a Roma per la rassegna Enzimi, Francesco preferì quello di Fiuggi di Lou Reed e Patti Smith. Ma anche in quel caso, non riuscì a recidere il cordone ombelicale con Andrea che gli chiese un collegamento telefonico per intonare “Perfect Day” durante l'esecuzione di Lou Reed, e condividerne l’emozione con il pubblico della piazza romana. Al campetto dello sport di Fiuggi sui cellulari nessuna rete, tutti improvvisamente a cercare di fare da antenna, al buio, a frugare nelle borse degli amici per trovare quella tacca in più.

Alla fine si fece, con il telefonino di Maria Cristina, che forse aveva Tim. E anche quella volta, Andrea potè dire “l’amico mio c’era” e Francesco diventò amico anche di queste tre sognatrici di Radio Rai, la Pinto, la Zoppa e la Malantrucco, e con una, in particolare, avrebbe condiviso la “sventura” di ritrovarsi Andrea Satta sul proprio cammino. Nei giorni a seguire, Francesco mi chiese almeno cinque volte di ringraziare la mia collega per aver tirato fuori dal sacco quel cellulare provvidenziale. Noi non finiremo mai di dire grazie a lui per aver tenuto a battesimo il nostro programma “Scherzi della memoria”, in onda per diversi anni nella notte di Radiouno.

Il collegamento dall’alto non gli era ancora riuscito, quello in mongolfiera, a descrivere il panorama in diretta su un’emittente locale, cucinando uova strapazzate. Era tutto pronto, a Stradarolo ’99, superato lo scetticismo del sindaco di Genazzano, l’incredulità dei pompieri e dei vigili urbani, fatta l’assicurazione per spedire Francesco nella cesta di vimini, mongolfiera recapitata dal Piemonte da una società di noleggio ai nastri di partenza, passeggero unico già imbracato, con gli occhiali da saldatore, ormai votato al sacrificio. Il pubblico del Festival avrebbe sentito il suo reportage, attraverso casse distribuite lungo un percorso artistico che si snodava, contemporaneamente, per centinaia e centinaia di metri nei vicoli dei due paesi.
Caro Francesco, solo il cielo non era pronto, e le condizioni meteo non permisero ai tuoi amici di sollevarti più di quanto avresti mai potuto immaginare.

Vedendo l’esito di questo Sanremo avresti esclamato “E c’Arisemo!” Più o meno quello che hai detto arrivando in ritardo a casa nostra, martedì, per la prima serata. “Ho sentito Arisa in macchina, questa vince n'antra vorta…”. Chi l’avrebbe mai detto Francé che mi sarei ritrovata dopo tre giorni a pensarti come Claudio Villa, l’unico a morire la sera prima della finale, con Fazio che dà l’annuncio, come fece Baudo prima di far cantare “Nostalgia canaglia” ad Al Bano e Romina, in un'epoca senza social, nè wikipedia.
A proposito, Francè, altro che Reuccio, la tua faccia è bella e famosa a Roma come la Bocca della Verità, ci penso io a Satta non ti preoccupare, e “smettila Andrea con questa tua aria da Gerard Philippe” glielo dirò ogni tanto anch’io, per ridere e piangere insieme come abbiamo fatto tante volte e come non smettiamo di fare in queste ore.
Sarà per le tue “lanose gote”, ma so cosa vorresti dirmi in questo momento, sfranta per il tuo ultimo volo: “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”.
  
Serata "Notturno italiano", ass. cult. Apollo 11

Auditorium Parco della Musica, Roma 9 giugno 2013



A seguire, un testo di Francesco Di Giacomo per Stradarolo '99

A CERTE ALTEZZE (ho poco tempo Andrea)

      A certe altezze, si fanno più leggibili, le parti fisiche, di una terra, sempre più gnoma, boccia, pallino, punto puntino, punto, appunto.
      A certe altezze, braccia e gambe, e seni e ventrame sparpagliato, alterni a tessuti muscolari, viadotti e vialetti, terminali nervosi e l’intestino enorme. Autostrade, strade, autosentieri, colline e montagne e mo’ basta! Nella somma di puzze e odori celestrini da piastrellaio, quel cielo a noi così poco riverito, come un grande cesso pubblico.
      A certe altezze una serie di sussurri e sospiri, di grida e di dolcezze, di impressioni basse e bestemmie sante.  Su tutte il pensiero veloce di un bambino che scrive col dito per aria: “ pallone, palla, boccia, pallino, punto, puntino: voglio venire anch’io”.
      A certe altezze non si deve mai dire maestà. I re sono così lontani, a certe altezze.

 FRANCESCO DI GIACOMO

Avanti Pop - tappa di Padova, giugno 2007 (foto T. Pinto)





sabato 8 febbraio 2014

L’importanza di chiamarsi Peppa Pig



Il cartone animato della generazione “touch-screen” (i bambini nati dopo il 2007, anno di diffusione dei primi smartphone) è sicuramente quello che gli inglesi, con immancabile sense of humor, hanno chiamato “Peppa Pig”, la maialina col profilo che ricorda il phon Rowenta della nostra infanzia. Un nome azzeccato ed efficace che rimbalza allegramente sulla bocca di tutti, genitori, nonni e bambini, dai 6 mesi ai 66 anni, quasi un codice comunicativo per entrare in connessione con la cosiddetta “lallazione”, quando i più piccini cominciano a produrre sillabe a ripetizione con le prime consonanti, la “m” di mamma, ma anche la “t”, la “d” e, soprattutto, la “p” di “pa-ppa” e di “pa-pà”. Ecco perché, subito dopo, arriva lei, la “pe-ppa” dei nostri tempi.

Il primo segreto è dunque questo, un nome che funziona o, come diceva Oscar Wilde, citato nel titolo di questo post,  che "procura delle vibrazioni", con un suono che scalda il cuore a sentirlo pronunciare. Tutti i bimbi cominciano a vibrare nel loro primo ballo quando parte il loop di note Sol Mi Do Re Sol / Sol Si Re Fa Mi Do della frenetica sigletta, a incorniciare episodi brevi, tarati sul giusto intervallo di concentrazione di un bambino così piccolo e sul tempo di carico di una lavatrice, ad esempio, qualora si volesse indagare anche questo tipo di risvolto pratico. Piccole pause per rifiatare senza sentirsi in colpa, essenziali per una mamma che in cinque minuti riesce a riconquistare la solitudine del bagno. Un sereno relax con Peppa Pig, programmata per ricominciare un attimo prima che il bambino stesso possa chiederlo, un pacchetto di episodi brevi tenuti insieme dall’inesorabile sigla a soddisfare il più importante dei requisiti: la ripetitività, in un’età insaziabile, in cui le richieste di bis sono potenzialmente infinite.
Molti si sono chiesti in questi ultimi mesi, il perché di tanta peppamania. Genialiata del nome a parte, i motivi si possono analizzare e sono semplici.


I bambini si identificano nell’egocentrismo fisiologico della protagonista. Se prima erano in tre i piccoli porcellini della Disney, ora è Peppa al centro della narrazione, proprio come nelle famiglie di oggi, dove le coppie arrivano tardi al primo figlio e prima di metterne in cantiere un altro, si concedono una pausa di riflessione di tre o quattro anni. Non c’è lupo cattivo (che, a proposito dei porcellini Disney creati negli anni ‘30, aveva la voce dell’indimenticabile Arnoldo Foà), non ci sono nemici da sconfiggere o atavici conflitti irrisolti, c’è solo un modello di società in cui potersi riconoscere.
Peppa è la versione moderna di Barbapapà, anche lui tutto rosa. I colori pastello, le forme morbide e arrotondate, l’ingenuità della linea, lontani anni luce dal 3D da inseguire a tutti i costi. E’ il cartone che più gli si avvicina, ma l’impegno sociale ed ecologista non è più appannaggio di un nucleo familiare di eroi speciali (con ben 7 figli), ma è a portata di tutti, delle famiglie estese di oggi che collaborano e fanno comunità, meglio se multiculturale, piena di amici e compagni di viaggio come non si vedeva dai tempi dell’arca di Noè. Un mondo animale variopinto, grande metafora dell’integrazione e della salvezza umana. Non è l’unico ritorno alle origini proposto dagli autori della serie.

Tutti gli episodi raccontano una quotidianità disarmante, che descrive l’ufficio del papà, la casa del compagno di scuola, l’ospedale, la visita medica, dentista o veterinario, le feste di compleanno, il parco giochi, l’orto urbano, la piscina, la gita fuori porta, la sosta per fare benzina. La casa è sulla collina, il sole è giallo con i suoi singoli raggi che si possono contare, sottili come le braccia dei personaggi, linee dritte ed essenziali, la stessa tecnica elementare utilizzata dai bambini che, nei loro primi disegni, mettono al centro proprio la famiglia. C’è poi il dettaglio degli occhi che, secondo un’analisi della psicoterapeuta Silvia Vegetti Finzi, nasconde una conoscenza della psicologia infantile da parte di chi ha inventato il cartone: «Peppa, anche di profilo, ha due occhi. E i bambini piccoli riconoscono la faccia proprio dagli occhi. Quindi il fatto che Peppa abbia gli occhi anche sul profilo rende tutto più facile».
Peppa e il suo fratellino George hanno i genitori che tutti vorrebbero, sempre presenti, ma non invadenti, ironici, complici, pronti all’autocritica, capaci di vivere per sempre felici e contenti, rotolandosi in una pozzanghera di fango.

C’è poi un’altra cosa. Peppa Pig è nata in Inghilterra nel 2004. E’ arrivata in Italia nel 2010. E’ il primo cartone modello Ikea, che propone il mondo edulcorato del cake design, un fai da te sognante, monotono e ripetitivo. L’arredo, le cornici al muro, il tavolo, il letto a castello in ferro laccato della cameretta, persino il dinosauro di pezza, giocattolo preferito di George, è un must della famosa catena svedese. Non ci sono giochi elettronici, ma se manca qualcosa, Mamma e Papà Pig la ordinano via Internet. Peppa e il fratellino giocano con le cose semplici che hanno a disposizione, persino il saltellare nelle pozzanghere nell'era dell’ iPad, è un tornare alle origini e ai giochi di strada di un tempo.

Infine, i grugniti. Devo ammettere che qui mi fermo, ma sono tre gli elementi che fanno di Peppa una maialina, il naso, il verso e il fango, e guarda caso sono proprio le cose meno gradevoli di tutta la storiella, edulcorata, dolciastra, ma dolcemente irriverente. “Il grugnito arriva dalla colonna sonora internazionale”, mi spiega Tatiana Dessi, la doppiatrice che ha dato l’anima a Peppa e che all'inizio non avrebbe mai scommesso sull’esito brillante e fortunato della nuova serie animata. Da circa 4 anni, Tatiana e gli altri doppiatori della famiglia Pig lavorano in isolamento e non più insieme come agli inizi, quando avevano tutta l’energia e l’assetto di un Quartetto Cetra. Si chiama “colonna separata”. Così, ciascuno di loro, in un solo turno, riesce a registrare episodi per non so quante puntate: “da soli si macina di più che in compagnia, non hai motivi di distrazione, chiacchiere o commenti, e le righe da leggere scorrono velocemente”.
Ha sempre esercitato un enorme fascino, su di me, il mondo del doppiaggio, quello di professionisti come Tatiana Dessi che oggi devono e riescono a doppiare persino se stessi.

Tatiana Dessi, voce di Peppa Pig

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