lunedì 30 dicembre 2019

La Potenza - Taranto in bicicletta sulle orme di Alfonsina



Serata a Matera in una “casa ospitante”, una delle 12 abitazioni che hanno accolto ieri i concerti organizzati da Gigi Esposito e dall'Ente Parco della Murgia Materana.

È Palazzo Bernardini, nato nel 1448 dalle macerie di una delle otto torri a difesa della città. Un concerto all’ingresso, un altro al piano nobile. Grandi saloni, lampadari, alti soffitti decorati.

Il mio occhio cade su un volume rilegato poggiato in un angolo. Sulla costina la scritta “1924, giugno”.

“Matteotti!” penso subito, “Il Giro d’Italia”, subito dopo.

Il Giro di Alfonsina Strada, l’unica donna ad aver corso insieme agli uomini, una storia a me molto familiare tanto da far nascere una canzone.

Comincio a sfogliare, non è L’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci proprio in quell’anno, ma, ovviamente il foglio del territorio, La Gazzetta di Puglia: molti resoconti parlamentari, brevi dall’estero, pubblicità, fidanzamenti, delitti, annunci vari, ma di Matera rarissime notizie.


Potenza “non pervenuta”, come la televisione ci ha abituato, negli anni a venire, all’ora del meteo.

Allora cerco notizie di Alfonsina, vado alla pagina sportiva che inaspettatamente apre con la scherma e i tornei pugliesi di Mangiarotti, Grinda, Violante, poi dal Giro nessun dettaglio particolare.


Alla pagina del 20 maggio finalmente un articolo sulla Corsa, e che articolo, Potenza è nel titolo. È la cronaca di una tappa, ma certo, se c’è una tappa a cui queste quattro pagine quotidiane locali possono dare spazio, è quella pugliese, anzi, quella appulo-lucana.

È la quinta tappa, la Potenza-Taranto: Alfonsina Strada è staccata di quattro ore circa dal primo, arriva ultima in 12 ore e 50 minuti. Lei che per partecipare si registra come Alfonsin Strada, ma già all’arrivo di questa tappa, è la più acclamata.

Sono trascorsi quasi cent’anni e con l’ultimo assolo in lontananza di Ettore Fioravanti alla batteria, io cerco di immaginare il percorso, attraverso paesi come Vaglio e Tricarico, di una Basilicata in bicicletta ai tempi di Alfonsina.













venerdì 8 novembre 2019

Berlino, da Muro a Murales con Kiddy Citny


Da muro a murales, gigantesca tela a cielo aperto, galleria d’arte contemporanea e temporanea, il Muro ha rappresentato anche la prima forma di Street-art a Berlino.
Kiddy Citny è stato il primo, nel 1984, con Thierry Noir e Christophe Bouchet, a sfidare il muro con la pittura, il 19 e 20 novembre l’artista berlinese sarà in Italia per dipingere con Jakob de Chirico un muro allestito all’interno del Museo Macro di Roma.

Kiddy Citny, com’è è nata l’idea di dipingere il muro? Immagino sia stato un momento pieno di emozioni contrastanti.

Ho iniziato a dipingere sul muro di Berlino per rinchiuderlo nell’arte, per mostrarne l‘assurdità.
L’arte come forma più alta di comunicazione ha il compito di raggiungere il maggior numero possibile di persone, il muro di Berlino, il lato ovest del muro, era perfettamente adatto a questo, e così è diventato il mio primo atelier.
Con Thierry Noir e Christophe Bouchet abbiamo dipinto un centinaio di metri di un mondo colorato, vivace e libero.

Era un atelier molto freddo...
Il muro costruito nel 1961 era freddo, disumano, un muro di morte, un relitto della Guerra Fredda, del comunismo contro il capitalismo, Berlino una città artificiale

Le persone, i passanti, come hanno reagito?
Siamo stati i primi che hanno dipinto arte e immagini sul muro, le persone erano divise a metà: una parte  diceva meraviglioso, fico, gli altri dicevano non potete dipingere sul muro. Nel 1986, Wim Wenders ha scoperto i nostri dipinti e ha girato molte scene del suo film “Il cielo sopra Berlino”


Così improvvisamente guardando Berlino dall’alto si poteva vedere un lato del muro, brillante e artistico, e un lato grigio, the dark side of the wall, un lato oscuro. Puoi descriverci quel lato, la vita, le sensazioni a Berlino Est?
Raramente sono andato a Berlino Est, era grigio, deprimente, un odore di fosforo e carbone sulle labbra, le persone non erano libere, era triste

Tu sei anche un musicista. Ci sono molte canzoni dedicate al muro, qual è la tua preferita, quella che descrive meglio quegli anni?
Siamo stati giovani socializzati dal punk rock, la nostra libertà era di vivere nel presente, tutto era per noi, tutto era per gli altri, era una questione di libertà.
In quel momento avevo il mio gruppo musicale “Sprung aus den wolken” (Il salto dalle nuvole), i nostri testi dicevano “Siamo giovani e non possiamo aspettare” li abbiamo dipinti come immagini sul muro.
Abito dal 1975 a Berlino ovest e ho conosciuto musicisti come Iggy Pop, David Bowie e Nina Hagen, erano persone normali come me e te.
Tutti i creativi si sentivano a loro agio a Berlino perché c’era una libertà che non esisteva da nessuna altra parte in Europa
I Sex Pistols avevano una canzone “Holidays in the sun”, una frase è “Ora ho una ragione per aspettare: è il Muro di Berlino”,

Hai cominciato dipingendo volti a forma di cuore e personaggi con la corona che sono diventati tratti distintivi della tua arte, il tuo modo per dire che ognuno dev’essere re o regina della terra che ha scelto di abitare. Dopo quello di Berlino, hai dipinto altri muri?

Preferisco ancora dipingere sui muri, tanto spazio, la dimensione è fantastica e l’arte all’aperto diventa pubblica.
E’ il mio un messaggio a tutti i presidenti di questo mondo che vogliono costruire muri, per tenere imprigionata la loro gente: rompete i muri perché solo una vita senza muri è una vita libera.

Timisoara Pinto

Intervista con Kiddy Citny - Radio1 in viva voce


giovedì 17 ottobre 2019

Il tallone di Achille (Ogni riferimento a Lauro è puramente casuale)

foto di Roberto Coggiola

Sui social impazza il dibattito sul Premio Tenco, molte vicende evocate da pungenti botta e risposta su facebook riguardano strettamente soci ed ex soci, lascerei a loro il confronto sulle dinamiche interne del Club, per concentrare, invece, l'attenzione sul concetto stesso di canzone d’autore, riflessione che la famiglia Tenco, con il comunicato chiamiamolo “della discordia”, indirettamente ci spinge a fare.


Cos’è il Club Tenco lo riporta direttamente il sito internet della rassegna: “Il Club è stato fondato a Sanremo nel 1972 da un gruppo di appassionati per promuovere e sostenere la cosiddetta “canzone d’autore“, ossia la canzone di qualità. Lo scopo del Club è quello di riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi Tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo. Il Club opera senza scopo di lucro, in assoluta e riconosciuta autonomia dall’industria musicale”.

Sintetizzando e andando al punto di questa riflessione, la famiglia Tenco sostiene che alcune scelte della direzione artistica rappresentino “uno snaturamento inconcepibile, in contrasto con le ragioni per le quali il Premio Tenco fu istituito” e avverte che “la partecipazione di alcuni ospiti che non conoscono il mondo dei cantautori, specialmente qualora venissero incaricati di interpretare la sigla di apertura della rassegna, potrebbe apparire come una forma di pubblicità per costoro e far perdere la storica funzione di riconoscimento culturale per coloro che invece creano canzoni di spessore".

L’ospite a cui quest’anno verrà affidato l’onore di interpretare “Lontano, lontano”, sigla di apertura della rassegna, si sa, è Achille Lauro. In effetti, non c’è nel Tenco un criterio o un regolamento in base al quale si possa scegliere l’interprete della sigla, ad esempio essere stato vincitore di Targa o aver realizzato un disco con il migliore arrangiamento, o vincitore di altro premio nell’ambito della canzone d’autore, così per lanciare delle ipotesi. Niente di tutto questo, fino a poco tempo fa la sigla era la vera sorpresa dell’edizione: l’interprete veniva svelato solo quando si alzava il sipario.

Per quanto gli stessi eredi Tenco abbiano cercato di riportare la discussione su altri aspetti, dispiace un giudizio così duro e netto da parte loro nei confronti di un cantante.

Senza fare paragoni, prendiamo un caso illustre, che resiste alle mode e agli anni: Rino Gaetano, semplicemente uno che al Tenco non è mai stato invitato. Il suo stile fu etichettato “nonsense”, un modo per accostarlo più al pop demenziale che alla canzone d’autore, per capire quanto frettoloso possa essere tatuare una medaglia o una croce addosso all’emergente di turno.

Nessun pregiudizio, quindi, se un artista arriva al successo grazie a Sanremo e viene in seconda battuta invitato al Tenco, purché, come ha già brillantemente sintetizzato Marco Molendini, questa scelta non rispecchi “una tendenza generale, quella di cercare il soccorso del vincitore, indipendentemente da ogni altra motivazione”.

Tra le cose, infatti, che vengono contestate, c’è il tentativo di stabilire troppi legami con il Festival di Sanremo come scorciatoia per rilanciare la Rassegna della Canzone d’Autore.
Questo contrasta con gli ideali fondativi del Tenco, che nasce proprio come alternativa al Festival “dominante”, anzi in aperta opposizione, come atto di protesta alle sue logiche commerciali, per volere di Amilcare Rambaldi che all'inizio degli anni ‘70 leggendo un articolo su Guccini, Ciampi e Vecchioni intitolato “Bravi, bravissimi, ma chi li vuole?”, rispose: “Questi cantautori non li vuole nessuno, li voglio io”.

C’è chi apprezza e incoraggia questo avvicinamento, ritenendo che sia questa la strada (cito da commenti vecchi e nuovi) per “svecchiare” il Tenco, “il punto di equilibrio e vitalità per non diventare un museo dal vivo” per “riempire il Teatro Ariston” e chi, invece, pensa che il Tenco non esprima nulla di datato ma che debba dare spazio e attenzione agli artisti che non hanno facile accesso ai canali mainstream, che non rientrano nella programmazione dei network radiofonici, perché non hanno il booking o l'etichetta giusta, sono autoprodotti, non ci sono spazi televisivi per la “canzone d’autore”, o molto semplicemente perché l'industria discografica li considera anagraficamente poco “spendibili”.

Grande spazio il Tenco riserva a proposte e nomi che non hanno “pari opportunità” dei nomi più popolari, se la stampa dedicherà a questi la stessa attenzione sarà un risultato positivo.
Così come sarebbe interessante che un Lauro, dopo quest’esperienza, restasse più vicino e sensibile al richiamo di questa parte meno visibile del mondo della canzone e dello show business.

Qualcuno ha ricordato che Vecchioni, vecchio amico del club Tenco, ospite della Rassegna fin dai primi anni, ha anche vinto il Festival di Sanremo. L’ha vinto dopo, però, a coronamento di una carriera.
Certo, ci sono tanti artisti che hanno calcato i due palcoscenici, ma perché ognuno svolga al meglio il suo ruolo sarebbe auspicabile che fosse il Festival ad accorgersi dell'esistenza di un circuito alternativo e invitasse cantanti che prima sono stati sul palco del Tenco. E così è stato per alcuni, comunque pochi (e scusate se sbaglio qualche nome): Daniele Silvestri, Sergio Cammariere, Francesco Baccini, Avion Travel, Tosca, Motta, Zibba, Frankie Hi-Nrg, Elisa, Cristicchi (che ancor prima fece Musicultura).

Per anni ha regnato nel settore una “sindrome degli anni 70” che ha portato a ridicolizzare quasi la figura del cantautore barba e chitarra e ha penalizzato l’impegno in musica per trasformare il disimpegno in un valore.
Negli ultimi tempi, paradossalmente con l’avvento della comunicazione social, molti artisti hanno ricominciato ad “esporsi” su temi ormai non più rinviabili, alcuni si presentano con look dimessi e la barba da hipster. Persino De Gregori ha ricominciato a rispondere a domande sulla politica. Proprio ora si vorrebbe andare in controtendenza?

E poi la questione anagrafica: Il punto debole non è Achille Lauro, ma invitarlo perché “giovane”. Dalla dittatura del proletariato siamo passati alla dittatura del giovanilismo.

In quel festival del ’67, Daniele Piombi chiese a Tenco: “Lei ritiene che le sue canzoni siano adatte ai giovani?” Lui rispose “Io credo che i giovani siano adatti alle belle canzoni”. Si potrebbe sintetizzare così: le canzoni di Tenco erano canzoni di amore tormentato e di impegno civile e sociale. In risposta alle canzoni “beat”, il pop blandamente di protesta, Tenco rispondeva : “Noi nella pace e nella libertà non vogliamo “sperare”, ma preferiamo ora lottare su una trincea fatta di splendide e significative note, per conservarle o conquistarle. Questo è bene che si sappia”.

Timisoara Pinto




giovedì 21 febbraio 2019

Fabrizio Gifuni nel Centenario della nascita di Primo Levi

Fabrizio Gifuni (Esther Favilla Photographer)

Il 31 luglio 1919 nasceva a Torino lo scrittore Primo Levi, le celebrazioni per il Centenario della nascita cominciano oggi nell’ex campo di concentramento di Fossoli, vicino Modena, con un reading di Fabrizio Gifuni, quali pagine ha scelto, Fabrizio?

"Abbiamo scelto, insieme naturalmente alla Fondazione internazionale Primo Levi che mi ha invitato ad aprire questo anno dedicato alle celebrazioni, il capitolo del viaggio, quello che apre “Se questo è un uomo”, in cui Primo Levi racconta il momento della sua cattura, la deportazione nel campo di internamento di Fossoli, i giorni precedenti all’annuncio della deportazione nel campo di Auschwitz, quindi leggeremo esattamente a 75 anni di distanza nello stesso luogo e ci sarà un cortocircuito di spazio e tempo abbastanza emozionante. Concluderemo con l’ultimo libro di Primo Levi “I sommersi e i salvati”, un libro straordinario, sicuramente di pari importanza, se non il più importante di Primo Levi".

Fabrizio Gifuni ha interpretato molti testi legati a personaggi simbolo del Novecento, da Cesare Pavese a Pasolini, Giovanni Falcone, Franco Basaglia. E’ la prima volta che si avvicina ai testi, alle parole di Levi?
No, mi era capitato l’anno scorso di leggere “La chiave a stella” e “Il sistema periodico”, all’interno dei quali c’è un Levi anche inaspettato, ironico, sferzante. Tra i personaggi che ricordavi e che ho avuto la fortuna di incontrare, c’è Franco Basaglia, molto legato a Primo Levi, perché la prima volta che fece il suo ingresso nell’ex manicomio di Gorizia nel 1961, ripescò nella sua mente le parole di "Se questo è un uomo”, che furono le prime che gli vennero in mente.
Il lavoro sulla memoria è molto complesso e delicato, non è soltanto legato al ricordo, ma a quello che la memoria deve innescare nel presente. Le parole di Levi che leggerò sono importanti soprattutto per oggi, per ricordarci e tenere alta la guardia su ogni tipo di muro, di discriminazione, di odio. Purtroppo sono giornate in cui siamo completamente circondati dalla vergogna e dall’ignominia".


Sono tanti gli episodi di antisemitismo in questi ultimi giorni, da Parigi a Lione. In Italia 25 casi dall’inizio dell’anno secondo l’Ossevatorio della Fondazione Centro di documentazione ebraica. Primo Levi diceva “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, anche questo è il ruolo dell’attore. Lei, Gifuni, ha detto “Noi attori siamo in ascolto, viviamo il teatro come fatto politico, fatto per la polis”.

Sì, le parole di Levi sono di un’esattezza, di una precisione, provengono anche dalla sua consuetudine con la chimica: le parole e il linguaggio diventano sostanze da distillare. Tutte le nostre giornate si aprono con la lettura o assistendo a episodi ignobili, tutto questo ha riguardato e riguarda il concetto di straniero e di diversità nei campi di concentramento, ad Auschwitz, a Dachau, c’erano omosessuali, dissidenti e Levi lo scrive molto chiaramente. Parla di un’infezione latente, presente in ogni essere umano, di ritenere ogni straniero nemico a se stesso, questa infezione latente si manifesta spesso in episodi saltuari e non coordinati tra loro. Quando tutto questo diventa invece un sistema di pensiero, alla fine della catena di questo sillogismo c’è il lager, non si scappa da questo. Allora il lavoro di resistenza si fa in tanti modi, ma è soprattutto quello di contrastare i singoli atti fino al momento in cui restano atti non coordinati fra loro, atti ignobili, ma saltuari, quanto tutti questi gesti iniziano a unirsi in una catena, il pericolo diventa molto grande”.

Timisoara Pinto
per Radio1 in viva voce

Clip intervista


venerdì 8 febbraio 2019

Giornalismo sotto scorta – incontro con Sandro Ruotolo

“Quando si uccide il giornalista perché fa il giornalista perde la democrazia, non perde una categoria di lavoratori, perde la nostra democrazia”. Sandro Ruotolo

"Non c'è solo la minaccia fisica contro chi racconta i fatti a ogni costo. Quella più subdola è la minaccia economica da parte di un miliardario che fa causa anche se sa di aver torto: anzi, soprattutto. Si dicono "azioni temerarie". I soldi del giornalista sono pignorati in attesa del giudizio definitivo: intanto ti congelo la somma, poi aspettiamo di vedere chi ha ragione. Possono passare dieci, vent' anni". Concita De Gregorio

Il cuore del problema è sempre l’attacco alla libertà di stampa e il nostro diritto a essere informati.
Per approfondire

L'invisibile nemico della verità: così la minaccia economica uccide la libertà di informazione

Concita De Gregorio sta pagando per tutti

La legge sulla stampa è da cambiare

Queste vicende si intrecciano nel giorno in cui la FNSI ha indetto una conferenza con Sandro Ruotolo e l’incontro non può che cominciare così, con le parole del presidente della Federazione nazionale della stampa, Beppe Giulietti:

Non mi interessa dove siano i proprietari dell'ex Unità, li vadano a ripescare, si faccia garante il partito si faccia garante chi può, non possono pensare di non sapere quello che è accaduto. Questo governo ha annunciato un provvedimento sulle querele bavaglio, ma non ce n'è traccia. Ci sono depositati provvedimenti di maggioranza e d'opposizione: chiediamo a governo e parlamento di approvare subito queste proposte. I presidenti delle Camere devono calendarizzarle, altrimenti sarà chiaro che non c'è distinzione tra le forze politiche nell'invocare il bavaglio e nel tutelare delle leggi indecorose, sbagliate e liberticide. Se ne assumano la responsabilità senza nascondersi dietro alibi. Il Governo provveda a porre fine alle querele bavaglio che sono la nuova forma di lupara, se non lo fa, significa che vuole mantenere questa nuova forma di intimidazione nei confronti dei giornalisti sgraditi”.

Giulietti, prima di dare la parola al protagonista dell’incontro, Sandro Ruotolo (al quale è stata giorni fa revocata la scorta e poi riassegnata grazie alla sospensione del provvedimento di revoca), ha ricordato che sono 21 in Italia i giornalisti sotto scorta ma “Ci sono ancora Federico Marconi, un giovanissimo collega dell'Espresso, Giovanni Tizian, già minacciato dalla 'ndrangheta, Federico Giorvasoni di Brescia, Nello Scavo di Avvenire, Sara Lucaroni, Andrea Palladino e chissà quanti ne dimentico, lo dico perché chiediamo formalmente da qui al comitato ministeriale che si occupa di sicurezza di accendere i riflettori anche su queste situazioni”.


Intervista con Sandro Ruotolo per #Radio1inVivaVoce


Nelle ore di revoca della sua scorta, ha ricevuto tantissimi messaggi di solidarietà, ce n’è uno che l’ha colpita in maniera particolare, che vuole raccontare?
Io sono molto legato ai cittadini, perché il mio giornalismo è sempre stato quello di strada, ho sempre dato voce a chi voce non ha. Sono due i messaggi: mi hanno chiamato gli operai di Portovesme, dove anni fa raccontai la crisi dell’industria. L’altro che voglio citare è un messaggio su facebook di un gruppo di giovani che mi hanno scritto: “Abbiamo conosciuto il fenomeno mafioso grazie a te”. Sono ragazzi che mi conoscono per il lavoro che facevo sulla tv generalista, Rai, La7 e Mediaset, ma stanno seguendo anche il lavoro che sto facendo su internet. E’ bellissimo questo. Ecco, se c’è una cosa bella nella mia vicenda, è aver visto che migliaia di persone sono tornate ad essere opinione pubblica, a chiedere informazione, cultura. Nell’era dell’analfabetismo funzionale o dell’elogio dell’ignoranza, c’è una parte del Paese enorme che vuole invece l’informazione. Noi giornalisti abbiamo quindi una responsabilità enorme e non sempre ci meritiamo l’amore dei cittadini, dobbiamo tornare ad amare il nostro lavoro senza lacci e lacciuoli.

Che cosa ha influito di più, secondo lei,  sulla decisione di sospendere la revoca della scorta?
"Questo non lo so. Mi ha colpito moltissimo la dichiarazione del procuratore nazionale antimafia che è la massima autorità che ha detto che dovevo essere scortato. Ma il punto è quello che ha raccontato Marilena Natale: il clan Zagaria, la costola di cosa nostra in Campania, il Clan dei Casalesi, non si è pentito, stanno tornando fuori, è un clan attivo, recentemente la magistratura ha sequestrato 440 appartamenti realizzati in Romania. Insomma, non abbiamo ancora vinto, invece la politica sottovaluta. Non c’è nell’agenda politica la lotta alla mafia e alla corruzione, non c’è oggi, ma non c’era ieri e l’altro ieri, non Renzi, non Letta, non Gentiloni e non conte, quindi non è una questione di parte, è una questione che, da anni, la politica ha messo da parte. Pensate che nel 2018, 23 consigli comunali d’Italia sono stati sciolti per mafia e non ne parliamo? Nei territori se ne parla. Paradossalmente nei quartieri c'è più consapevolezza che nei palazzi della politica, questo è il punto sul quale riflettere. La strada è pericolosa non solo per il cronista ma anche per il cittadino: quante vittime innocenti abbiamo? La storia di Manuel che doveva avere un futuro da nuotatore, mia cugina morta a 39 anni, in Campania abbiamo 200 vittime innocenti, bambini di 3 anni, ragazzi quattordicenni, morti per le pallottole".

Lei in conferenza stampa ha detto che il clan Zagaria la voleva squartare.
“Nel 2016 a Casapesenna andai nella sede di Libera dove mi diedero una targa per il giornalismo coraggioso, il giorno dopo il referente di Libera ha ricevuto una testa di maiale con tre proiettili, una pistola, tre zampe di capretto e le interiora. Questo voleva dire che a me Zagaria mi voleva squartare vivo. Sono andato a Ottaviano a intervistare la sorella di Raffaele Cutolo, Rosetta Cutolo, latitante per dieci anni, in carcere per dieci anni, e lei durante l'intervista nella sua abitazione mi dice in dialetto due volte “Se non ve ne andate, arriva mio fratello Pasquale e ci pensa lui a mandarvi via”, ma di fronte alle minacce, mi sentivo tranquillo perché avevo la scorta”.

Timisoara Pinto


mercoledì 2 gennaio 2019

Social, il luogo dove le parole sono più pericolose della musica... Intervista con Nicola Piovani

Solo musica per le vacanze con il Maestro Piovani: dopo l’Auditorium di Roma, il suo “Concertato - La Musica è pericolosa” prosegue al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 6 gennaio



Come ci sorprende la nostra lingua, se a "concertato" aggiungiamo una “s” iniziale, diventa “sconcertato”, la musica è pericolosa nel senso che può creare sconcerto?

P: Vedo che lei ama l’enigmistica e il gioco con le parole! In realtà, dovevamo distinguere il tour dal libro “La musica è pericolosa”, ma non potevamo mettere concerto, perché per concerto intendiamo solo musica, mentre questo è un concertato di parole e musica. Suoniamo la musica scritta nel corso degli anni, ma prima racconto alcune cose che riguardano quelle musiche, alcuni episodi che le hanno fatte nascere, qualche cosa che mi è rimasta particolarmente in mente o qualche dettaglio tecnico che può incuriosire il pubblico.

Lei è l’unico musicista a poter vantare due anagrammi, Vai con il piano e Al piano io vinco, lo sapeva?

P: Ma allora io le dico che ce ne sono altri due! Quello che più di tutti si presta alla giocosità è firmato da Roberto Benigni ed è “Vicino al piano”. Poi, un attore di prosa, Ugo Maria Morosi, me ne ha regalato un altro che, per chi mi conosce, ben si attaglia: “Vicino a Napoli”.

Questo è un vero record di anagrammi, ma torniamo a “La musica è pericolosa” libro. C’è una dedica iniziale: a Nino e Tonino, posso chiederle chi sono?

P: Sono i miei fratelli maggiori senza i quali non sarei riuscito realizzare i desideri e i sogni che in parte si sono avverati. Mi hanno fatto da padre, da guida. Lavorano in attività diverse: quello più grande è un commercialista, l’altro è un organizzatore che si dedica fondamentalmente alla mia attività. Senza di loro non muoverei un passo.

La più classica delle domande: chi le ha trasmesso l’amore per la musica?
P: Fondamentalmente mio padre e mia madre, ma non erano musicisti. Mio padre era un piccolissimo commerciante, nasceva contadino e ultra povero, mia madre era una massaia. Però ma madre amava tantissimo le canzoni e quando lavorava in casa cantava in continuazione, non ho mai visto mia madre lavare i panni senza cantare. Mio padre aveva suonato la cornetta in si bemolle nella banda di Porchiano, paese vicino Roma.

C’è la suggestione della banda nella sua scrittura per il cinema?

P: Fondamentalmente c’è la sigla di ingresso in scena di Roberto Benigni, quella che abbiamo fatto per uno spettacolo del ’95 e che si è portato dietro negli anni. Scelsi di fare una sigla di ingresso per banda perché secondo me era il modo ideale per raccontare l’Italia delle piccole comunità degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, quei campanili solidali che sono le radici poetiche di Benigni. Me lo ricordavo perché da bambino, nel paese dove mi portavano in campagna, impazzivo di euforia quando passava la banda.

Ha lavorato alle musiche,  alle magie di Fellini, de André, Benigni, ha mai trascorso il Natale con uno di loro?
P: No, ma come sa, in genere il Natale è quel momento in cui tutti spariscono e si va in famiglia o con le famiglie che hanno i figli come i nostri. Il Natale è una specie di pausa, tutti tornano a casa, quelli che non sono di Roma, sotto Natale vanno chi a Padova, chi a Foggia, chi ad Avellino…

Lei che ha scritto tanta musica per il Cinema, qual è il film sulla musica che le è piaciuto di più?

P: Una bella domanda, sto pensando velocemente… ma lo sa che è una bella domanda ma non saprei cosa rispondere…

Si ricorda “Il concerto”? C’era questa frase che sintetizza il messaggio del film: «L'orchestra è un mondo. Ognuno contribuisce con il proprio strumento, con il proprio talento. Per il tempo di un concerto siamo tutti uniti, e suoniamo insieme, nella speranza di arrivare ad un suono magico: l'armonia. Questo è il vero comunismo. Per il tempo di un concerto.»

P: Molto bella e poi chi ha lavorato e lavora in orchestra sa quanto è vera questa frase.

Se lei non avesse suonato il piano… o, meglio, qual è lo strumento di cui è innamorato oltre il pianoforte?
P: Il violoncello e il clarinetto sono quelli che più si prestano all’idea del canto, a trasportare nel suono dell’orchestra l’idea di canto, di un canto più sommesso, non di spicco come il violino e il flauto. In genere, nelle melodie sono gli strumenti che preferisco, anche se nel lavoro e nello scrivere ci divertiamo a usarli tutti, perché ci tornano tutti utili in un momento o in un altro. In una delle ultime cantate sinfoniche che ho scritto, il tema principale lo faceva il bassotuba, cantava!

Anche questo un po’ felliniano..

P: Ah forse!

Era con Ennio Morricone alla festa per i suoi 90 anni all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Cosa ha imparato dal più giovane dei suoi grandi maestri, come lei una volta ha scritto a proposito di Morricone…

P: Ho imparato tantissimo da Morricone, perché quando io cominciavo a fare il lavoro nel Cinema, lui era già un’autorità. Ricordo che alla Fono Roma, abusivamente entravo nella cabina dove si proiettava il film che lui stava musicando. A quei tempi si registrava la musica dirigendo l’orchestra e si andava in sincrono con le immagini. Allora c’era questo buco nelle blindate sale di registrazione che era la cabina di proiezione. Io corrompevo il proiezionista e passavo il tempo a vedere come lavorava Morricone con l’orchestra per rubargli i segreti.
Poi gli ho raccontato tutto, ma Ennio è talmente generoso che i segreti non li tiene stretti, ogni volta che avevo un dubbio o una difficoltà tecnica lo chiamavo e lui mi diceva subito la soluzione. Una volta avevo difficoltà a scrivere per chitarra perché nei manuali di strumentazione non c'era la soluzione, Paganini al capitolo chitarra dice: se volete imparare a scrivere per chitarra dovete studiarla, dovete diventare chitarristi, perché è difficilissimo scrivere per chitarra e io chiesi ad Ennio come si risolveva questo problema e lui mi disse: te lo dico, basta che non lo dici a nessuno!

Non scriverà forse a breve un nuovo libro,  ma nel frattempo è diventato un influencer su twitter, dove le parole contano più della musica... Cito un suo tweet: “A volte mi sento circondato da un grande pregiudizio universale”

P: Ma io ho cominciato con twitter come un gioco tra amici, l’ho fatto per raccogliere e condividere aforismi, lei ha usato la parola influencer, mi sono subito preoccupato!

Ha un grande seguito, tanti retweet, lo vedo perché sono tra i suo follower. Un altro suo tweet: “Il popolo in piazza è sacrosanto quando è allineato con le mie idee, se no è borghesuccio, finto o peggio radical chic”. C’è un abuso di questa espressione “Radical chic”…

P: Sì certo, viene usato come insulto, anziché per definire quella classe americana degli anni Settanta intorno a Bernstein. Ma ci sono tante parole che sono state svuotate e usate come insulto. Un’altra è “buonista”, una persona che è buona bisogna insultarla con “buonista”. Allora a tutti quelli che usano questa parola come insulto, auguro di finire sotto i ferri di un dentista cattivista, che non è buonista e siccome è cattivista fa un uso allegro delle anestesie.

La Musica è pericolosa, ma a volte può salvarci dalle parole.


Timisoara Pinto
(intervista andata in onda a "Un giorno da renna" il 25 dicembre 2018 su Radio1)