domenica 31 ottobre 2021

Da una buona novella all'altra: De André nei panni di Pasolini

Con Dori Ghezzi e Francesco Giunta, in occasione dell'uscita dell'album "La buona novella" in siciliano

T.: Francesco Giunta ha tradotto, con la consulenza del linguista Giovanni Ruffino, un intero album di Fabrzio De André. Perché proprio “La buona novella”?

F.G.: “La buona novella” si è innestata nella mia vita diventandone parte, avevo solo diciotto anni quando è uscita. La collaborazione di Ruffino e i consigli anche di un altro linguista, il professor Roberto Sottile, sono arrivati in una fase successiva di revisione e di verifica di ciò che avevo fatto. Ho scelto questo album di De André perché è stato un faro per me.

T.: Lei nel libretto, infatti, scrive: “Appartengo alla schiera di quanti sono convinti che l’opera di Fabrizio De André sia stata fondamentale nel suggerire loro la possibilità di essere e di diventare migliori rispetto a quanto previsto dal pensiero dominante ai loro tempi”

F. G.: Mi aiutò a crescere, ne sono assolutamente convinto. Non vuole essere un giudizio positivo su me stesso, dico che è stato fondamentale poter essere migliori grazie al lavoro di De André . Così, ho sentito l’esigenza di riavvicinarmi a quelle parole che tanto avevano seminato dentro di me, rileggendole nella lingua con cui da anni ho scelto di esprimermi.

T.: Prendiamo “Il testamento di Tito”, il testo si discosta molto dall’originale.

F.G.: Sì perché un’opera come “La buona novella” non poteva essere tradita perché tradotta, era necessario riadattarla. Un altro esempio è “Il ritorno di Giuseppe”. De André canta: “Un asino dai passi uguali compagno del tuo ritorno”, io in siciliano non potevo usare “sciecco”, perché ha un’accezione negativa. Così l’asino è diventato “l’armaluzzo compagno a l’arsura”. Questo è stato il lavoro più delicato, cercare delle metafore alternative che non tradissero l’intenzione originale.

T.: E’ solo per una coincidenza anagrafica, perché “La buona novella” è l’album che ha segnato i suoi 18 anni o perché ha un significato particolare rispetto ad altri dischi di De André?

F. G: Amo tutta l’opera di Fabrizio e questo è evidente, non ha neanche senso che io lo dica. Però credo che con “La buona novella” Fabrizio abbia raggiunto il suo apice, un lavoro di una sintesi e di una profondità uniche, è un disco fuori dal tempo.

T.: Dori Ghezzi, per lei è così?

D.G.: E’ incredibile come Francesco Giunta sia stato fedele nella traduzione e sia riuscito a dare alle parole scelte la sonorità che Fabrizio cercava. Il complimento che Leonard Cohen ha fatto a Fabrizio è stato quello: si è stupito per la fedeltà della traduzione e per la sonorità delle parole che usava. E questo è quello che ha fatto Francesco.

T.: Francesco cosa vuole aggiungere rispetto a quello che ha appena detto Dori Ghezzi sul suono dell’album?

F.G.: Volendo tradurre senza tradire, è stato necessario rimanere fedeli, per quanto possibile, al suono originale. In tal senso, l’aver fatto ricorso solo al pianoforte e alle percussioni, laddove l’incedere e l’incalzare dei brani lo richiedeva, mi ha consentito di stare vicino all'impianto classico dell’orchestra utilizzata dal maestro Giampiero Reverberi nell’album di De André. Per quanto riguarda il testo e quindi la parola cantata, ho cercato di mantenere lo schema delle rime voluto da Fabrizio e quindi la rima baciata, la rima alternata o l’assonanza, dove ricorreva. Tutto questo evitando un uso meccanico di questo criterio.

T.: Possiamo dire che “La buona novella” sia l’album più pasoliniano di De André?

D.G.: “Forse più che Pasolini, mi ricorda un altro autore, Josè Saramago che ha scritto “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, dove è evidente che anche lui si sia ispirato ai Vangeli apocrifi. E' impressionante come alcune frasi siano identiche, la cosa mi ha colpito moltissimo, e Saramago l’ha scritto dopo Fabrizio. Nessuno ha copiato da nessuno, non voglio dire questo, evidentemente entrambi si sono rifatti molto fedelmente ai Vangeli apocrifi. E’ incredibile come la loro visione sia molto vicina, nell’intendere la spiritualità e rispettare l’emblema femminile e “La buona Novella” è impostata, soprattutto sulla presenza di Maria”.

T.: “La buona novella” in siciliano con la pianista Beatrice Cerami e le quattro voci di Cecilia Pitino, Alessandra Ristuccia, Laura Mollica, Giulia Mei diventa, così, un’opera corale femminile.

D.G.: La scelta di quattro donne, contrariamente al fatto che la voce sia soltanto maschile nell’originale di Fabrizio, arriva profondamente.

F.G.: Ti dirò di più: le donne intorno a questo lavoro sono nove. In scena ci sarà una percussionista, poi c’è Maria Cristina Di Giuseppe che ha scritto una parte dei testi in italiano che faranno parte dello spettacolo teatrale, di cui sarà la regista, ci sarà un’attrice che li reciterà, e c’è Dori che le raccoglie tutte e che, dall’alto della sua affettuosa complicità, ci ha dato il coraggio per affrontare un progetto così grande.

T.: Qual è l’attualità de “La buona Novella”?

D.G.: E’ quella, come Fabrizio ha fatto, di continuare a salvaguardare gli idiomi locali che poi sono idiomi internazionali, secondo me. Fabrizio sarebbe stato un fanatico di questa operazione.

T.: Qual era il rapporto di De André con il dialetto siciliano, con la Sicilia?

D.G.: Ma sai, lui ha cantato in napoletano, piemontese, genovese, in lombardo addirittura, è uno che non si è mai tirato indietro. Non l’ha solo detto, l’ha sempre fatto. Poi, il siciliano è comprensibile a tutti, lo sentiamo circolare, contrariamente al lombardo che non lo conosce più nessuno e questa è una carenza enorme.

G.G.: Questo problema della perdita dei dialetti è grave, un grande linguista ha detto “I dialetti sono gli affluenti della lingua italiana”. Senza i dialetti la nostra lingua sparirà. Mantenere gli idiomi non è un richiudersi, ma è mantenere viva questa ricchezza, questa grande varietà.

T.: Dori, qual era invece il rapporto tra De André e Pasolini?

D.G: Non so se Pasolini ascoltasse Fabrizio, nessuno me ne ha mai parlato. Però Fabrizio ha letto molto Pasolini e abbiamo libri con i suoi appunti, sottolineature, annotazioni, commenti e ci sono delle cose molto interessanti e mi piacerebbe fare un lavoro su questa sua ricerca.

T. : Forse anche spunti per canzoni?

D.G.: No, sono commenti dove lo trovi d’accordo o in disaccordo.

T.: Un esempio?

D.G.: C’è un libro soprattutto, quello che è stato pubblicato postumo.

T.: “Petrolio”?

D.G. : Sì, Fabrizio sosteneva che se Pasolini fosse stato in vita non avrebbe permesso di pubblicarlo. Lo trova un po’ snaturato, non giudica tanto Pasolini, ma l’operazione di libertinaggio degli editori. Si è un po’ messo nei panni di Pasolini.

domenica 2 maggio 2021

I mondi della cultura e dello spettacolo. Dalla spedizione dei Mille (Bauli) a Unomaggio Taranto

“La spedizione dei Mille” Bauli a Piazza del Popolo è un titolo degno di un’impresa risorgimentale. Ci pensavo mentre ero lì, giorni fa, il 17 aprile per l'esattezza. Poi ieri, mentre tutti parlavano del Concertone del Primo Maggio, io seguivo la lunga diretta facebook di “Unomaggio Taranto” organizzata dal Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Un’edizione senza palco e senza musica, ma aperta alla riflessione sui temi del lavoro, della salute, dei diritti, del clima, dell’ambiente e della precarietà del settore dello spettacolo a cui hanno partecipato, come ogni anno, associazioni e attivisti da tutta Italia e i tre direttori artistici Diodato, Roy Paci e Michele Riondino. Roy Paci ha usato subito un’immagine da “Quarto stato” (il quadro icona di Pellizza da Volpedo per il quale la questione sociale è un tema imprescindibile dell’arte), dicendo che lavoratori dello spettacolo e i braccianti sono uniti nella stessa marcia, quella degli “invisibili”.

La pandemia ha fatto emergere la questione degli “invisibili”, anche quelli della cultura, che lavorano dietro le quinte, nei camerini, sui furgoni, al telefono, al volante, su una scala, quelli che portano i bauli, che organizzano, gli uffici stampa, i fonici, e tutto un mondo di talenti artistici che vivono tra passione e precarietà, un lavoro intermittente, indipendente, senza diritti e senza tutele. “Dopo tanti anni dobbiamo dedicarci a loro – ha detto Roy Paci. - Questo limbo insopportabile è anche dovuto a una mancanza di risposte e interlocutori. Bisogna uscire dal cantuccio viscido dei non diritti”. I lavoratori dello spettacolo chiedono una ripartenza che consenta a tutti, di ripartire, con aiuti concreti per tutti gli spazi culturali, dal più grande e importante al più piccolo e sconosciuto. Chiedono un tavolo interministeriale che coinvolga lavoratrici e lavoratori del settore dello spettacolo e cultura con il Ministero del Lavoro, il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, per una riforma strutturale necessaria di tutto il settore. A piazza del Popolo Daniele Silvestri mi aveva detto: “Quello che è successo è un’ecatombe, quindi ripartire significa dover essere aiutati a farlo. Questo settore è una fonte di pil e di indotto a cui lo Stato sta di fatto rinunciando. Chiediamo al ministro Franceschini di finire di ascoltarci, perché un po’ già l’ha fatto”.

Tutti quelli con cui ho parlato hanno indicazioni precise su come procedere, vorrebbero poter portare la loro esperienza e la loro testimonianza a quel tavolo interministeriale. Quello che molti denunciano è un sistema che “premia” gli interessi dei grandi enti, delle grandi aziende e delle fondazioni, ma non tutela lavoratrici e lavoratori, specie quelli indipendenti. In questa edizione di “Unomaggio Taranto”, Roy Paci, che ha abbracciato il sindacalista Abubakar Sumaoro e la sua idea di “marcia degli invisibili”, ha spiegato: “Quando parlo di invisibili, parlo di una realtà che conosco fin da bambino perché sono figlio di contadini e so quello che accade nelle campagne. Gestisco da venticinque anni un’azienda che dà da mangiare a venticinque persone, tra operatori e musicisti, che si sono ritrovati di fronte a realtà assurde, senza avere la possibilità di godere neanche di quei pochi contributi previsti, perché c’è sempre stato un mercato nero difficile da inghiottire e l’hanno inghiottito soprattutto quelli che sono stati da sempre schiavizzati nelle campagne o nelle grandi strutture capitalistiche e importanti dello show business nazionale”.

E’ per questo, hanno spiegato i tre direttori artistici, che anche quest’anno il concerto di Taranto è saltato: “Ci manca molto quel palco – ha detto Diodato - , ma abbiamo deciso di non relegare tutto a una diretta streaming con le esibizioni degli artisti, per solidarietà e rispetto nei confronti di tutti quei lavoratori che vivono una situazione insostenibile e inaccettabile. Vogliamo dare voce a coloro che restano nel backstage, i professionisti dietro le quinte che ci permettono di fare il nostro lavoro”.
Michele Riondino, rivolgendosi a chi il primo maggio ha fatto scelte diverse, ha aggiunto: “Quei lavoratori dello spettacolo dovrebbero avere uno scatto di dignità e dire che lo streaming non è la soluzione, è una toppa che è peggio del buco, perché lo streaming non può sostituire uno spettacolo vero con il pubblico”. Riondino non ce l’ha solo con lo streaming e con gli artisti che hanno aderito ad altre manifestazioni, molti dei quali sono stati anche sul palco di Taranto più volte, ma anche con i sindacati: “Ci sarebbe da fare uno sciopero generale contro Cgil Cisl e Uil perché si occupano solo di prodotto e attività produttiva. “Come comitato siamo nati per combattere l’ostracismo dei sindacati. Cgil Cisl e Uil oggi festeggiano senza considerare la precarietà del lavoratore dello spettacolo, senza considerare che come main sponsor di quella manifestazione c’è l’Eni, facendo della coerenza un elemento che manca nel sindacalismo italiano. Noi non siamo mai stati contro il sindacalismo, ma contro questo tipo di sindacalismo, che favorisce il sistema produttivo industriale più che il lavoratore, quindi tradisce addirittura il proprio statuto”.

Tornando al lavoratore invisibile e precario, Annarita Masullo di “La musica che gira” ha detto: “Non ci conoscono, chi deve legiferare non conosce nemmeno il vocabolario del nostro settore, non conoscono la differenza tra un manager, un tecnico altamente specializzato, uno che si occupa di booking. Si parla sempre di riaperture di cinema, teatri, musei, ma in tanti paesini d’Italia, dove tutto questo non c’è, spesso c’è un piccolo live club che è un presidio culturale, è la possibilità per tanti giovani d’aggrapparsi a qualcosa. Siamo completamente deregolamentati, e in un paese come l’Italia che ha inventato il concetto di economia culturale, tutto il mondo ci guarda per l’arte e la cultura, è la nostra caratteristica suprema, non considerare questo è un tradimento della nostra identità e del nostro futuro”.

Molte le realtà piccole e indipendenti, l’anello più debole della catena. “Il covid ha scoperchiato il vaso di Pandora – dice Marzia Ercolani, attrice. Il sistema spettacolo è una giungla fatta di lavoro in nero, di tantissimi lavoratori che, per questo, non hanno maturato le giornate lavorative e quindi non hanno potuto ottenere nessun ristoro e, soprattutto, la grande discriminazione tra lavoratori di serie A e di serie B, tutto il circuito mainstream, pur tra mille difficoltà, è riuscito a ripartire, la televisione, i teatri stabili, non sono ripartiti al meglio, ma hanno potuto riaprire il percorso lavorativo, grazie a sovvenzioni pubbliche o private. Noi vogliamo che tutti lavorino, ma abbiamo bisogno di farlo in sicurezza”.
Giada Lorusso, attrice diplomata al Piccolo di Milano: "Chiediamo un sistema di tutele e di welfare che oggi non c'è, contro il lavoro nero. Vogliamo essere riconosciuti come tutti gli altri lavoratori, non vogliamo più scendere in piazza ed ‘esibire’ con il canto, la danza, il nostro lavoro. Noi facciamo quel lavoro che serve alla cultura e questo dovrebbe bastare".

Hanno nomi, volti, sigle, tante sigle e avamposti di una realtà frammentata per cui quando si dice “il mondo dello spettacolo”, sarebbe più corretto parlare di “mondi dello spettacolo”. “Le misure pensate per la pandemia non sono arrivate a tutti, non sono arrivate fin dove dovevano arrivare – dice un rappresentante della rete Risp (Rete intersindacale professionisti dello spettacolo e della cultura). I lavoratori guardano al modello francese: “Il sistema deli Intermittents, che tutela il lavoratore culturale in Francia, prevede che di anno in anno si possa accedere allo status di “intermittente”, perché il nostro è un lavoro discontinuo, ma non siamo pagati quando studiamo, creiamo o facciamo le prove, abbiamo la paga solo per quando andiamo in scena”. Bisogna immaginare una riforma che parli di reddito, ammortizzatori sociali, di un contratto nazionale unico di diritti e tutele per un settore che non ha mai avuto garanzie, nemmeno prima della pandemia. Dopo un anno ci siamo stufati che i nostri unici interlocutori siano i nostri datori di lavoro, e i nostri datori di lavoro sono, dal pubblico al privato, quelli che nella stagione 2019-20-21 hanno preso il fus, quelli a cui Franceschini ha erogato un extra fus senza neanche il paletto del mantenimento occupazionale: hanno preso i soldi e non sono stati obbligati a riassumerci. Io non mi voglio reinventare, voglio continuare a fare il mio lavoro con più tutele e diritti”.

In questa indagine nei “mondi dello spettacolo”, Maurizio Cappellini rappresenta invece “Bauli in piazza”, i lavoratori degli eventi dal vivo musicali, aziendali e fieristici: “Con la riapertura per noi cambia molto poco, i numeri consentiti non rendono sostenibili i grandi eventi, diverso sarebbe creare una capienza sulla base dei metri quadri, di dati certi, stabiliti da ogni commissione provinciale di vigilanza perché dare un numero che sia una percentuale indipendente da tutto, non ha molto senso e non crea i presupposti per un investimento economico. Quindi, poiché a livello imprenditoriale, nessuno organizza eventi in perdita, per noi cambierà poco o nulla”. Si spera che questo sia uno dei punti di analisi e approfondimento dei vari tavoli interministeriali che ci saranno. “Siamo in attesa che questi criteri vengano dichiarati e stabiliti. Per carità, ben vengano artisti che fanno eventi per mille persone all’aperto, sono virtuosi che non ci guadagnano nulla e lo fanno sostanzialmente per muovere i lavoratori e l’economia di mercato dello spettacolo, ma è un’aspirina, non risolve il problema. Questo ambiente va totalmente rianimato e foraggiato”. Rispetto ai lavoratori dei circuiti piccoli e indipendenti, quelli che lavorano per le grandi produzioni dovrebbero essere avvantaggiati. “Certamente sì – aggiunge Cappellini – siamo una realtà abbastanza sfaccettata, per cui dovremmo fare chiari riferimenti alle parti datoriali di cui stiamo parlando. Alcune sì e alcune no. Felicissimo per chi ha preso del denaro, perché credo che avere un’imprenditoria in salute sia comunque una speranza per il futuro. Di contro, tutto quella che è la parte ‘tecnica’, banalmente di manodopera, chiamala come vuoi, non ha avuto niente di tutto ciò, se non qualche ristoro o sostegno come si chiama col nuovo decreto, abbastanza casuale. Una delle nostre richieste è che sia un sostegno strutturato perché non è possibile non sapere cosa succederà di te”. Non spetterebbe al datore di lavoro che ha ricevuto l’indennizzo, trasferirlo poi alla manodopera? “Io sono un libero professionista e questo discorso per me non vale, ma sono d’accordo conte, qualcuno l’ha fatto, altri no, ma qui si entra nella coscienza dell’imprenditoria. E’ una delle cose che abbiamo lamentato nei confronti del ministero. Ci siamo sentiti rispondere “Noi i finanziamenti li diamo, ma dove vanno a finire non possiamo saperlo. Ecco, non mi aspetto una risposta così dalle istituzioni, no?” Chi ti ha dato questa risposta? “L’ho ricevuta più volte all’interno del ministero della cultura”.

venerdì 12 marzo 2021

“La musica triste mi rende immensamente felice” (Astor Piazzolla, Mar del Plata 11-03-1921 - Buenos Aires 4 luglio 1992)

“Il tango evapora, si volatilizza, arriva il bolero, il boogie woogie, arriva il rock, e automaticamente un tango muore perché non si balla più. Ma al contempo nasco io”

E’ un’intervista inedita di Astor Piazzolla tratta del documentario di Daniel Rosenfeld, “Piazzolla, la rivoluzione del tango”, che uscirà in Italia con la riapertura delle sale cinematografiche. La vita del musicista italo-argentino raccontata con riprese in Super8, fotografie, nastri vocali, conservati negli archivi della famiglia Piazzolla. In tutto il mondo si celebra il centenario della nascita del musicista che ha saputo trasformare il tango in un linguaggio universale, come spiega Maria Susanna Azzi autrice del libro “Astor Piazzolla, una vita per la musica” , tradotto in 5 lingue e pubblicato in Italia da Sillabe editore.

Maria Susana Azzi com'è avvenuto il suo incontro con la musica del maestro del tango d’avanguardia?

Come antropologa culturale trovo che il tango sia una finestra incredibile sull’emigrazione europea in Argentina, cosa che poi mi ha permesso di conoscere non solo la storia, i processi sociali, culturali, la politica e l’economia, ma anche la musica e il ballo. Attraverso le arti era inevitabile arrivare ad Astor Piazzolla.

Una biografia realizzata dopo aver intervistato 260 persone. L’edizione italiana in cosa si differenzia dalle altre?

Una galleria fotografica molto più completa di altre edizioni pubblicate in inglese dalla Oxford University Press, in spagnolo, coreano, giapponese e polacco e contiene anche degli omaggi da parte di Salvatore Accardo, Milva, Pino Presti, Gianni Mestichelli, Daniel Hugo Piazzolla, il figlio del maestro, e di Walter Santoro, presidente della fondazione internazionale Carlos Gardel.

Il sogno di Piazzolla era diventare un compositore di musica sinfonica ed è lui a raccontare il suo primo incontro con la musica in un’intervista del 1976: “Avevo l’età di nove anni, quando mio padre arriva a casa con uno strumento con una grande custodia. Era un bandoneon, un bandoneon a New York nel 1930. Io non sapevo nulla sul tango, ma io ero affascinato da un uomo che suonava il pianoforte nella casa accanto, era un ungherese allievo di Serjei Rachmaninov e io ascoltavo Bach tutta la giornata. Passavo il giorno accanto alla finestra, invece di giocare, per sentire quell’uomo meraviglioso suonava Bach e così ho finito col suonare il tango come se si trattasse di Bach”. La fisarmonica ha un suono acido, tagliente, è uno strumento molto vivace. Il bandoneon ha un suono vellutato, religioso. E’ stato costruito per suonare musica triste, diceva Piazzolla - Questo lo rendeva ideale per il tango, con i suoi forti elementi di nostalgia e malinconia. La fisarmonica con il suo timbro allegro, non renderebbe giustizia all’essenza della nostra musica. Al posto di un giocattolo, Piazzolla riceve una scatola magica che segnerà per sempre la sua vita...

“Piazzolla bambino rimase molto deluso perché come regalo si aspettava una mazza da baseball. Con questo dono del bandoneon, strumento musicale, ma anche simbolo culturale, il padre ha voluto dirgli: ‘Sentiti argentino, non sentirti immigrato senza radici come mi sento io’.”

Maria Susana Azzi, Piazzolla disse che "La cumparsita" era il peggiore dei tanghi, nel suo libro lei scrive che inserendo nel suo gruppo strumenti come l'organo Hammond, il flauto, la marimba, il basso elettrico, la batteria, le percussioni, la chitarra elettrica, voleva creare uno “scandalo nazionale”, che gli argentini non erano pronti per le “creazioni audaci”. Nel docufilm di Daniel Rosenfeld, Piazzolla difende il suo tango dagli attacchi dei tradizionalisti. Si sentono gli ascoltatori di un programma radiofonico che lo chiamano “killer”, “degenerato”. Era il 1960 e Piazzolla con molta ironia risponde “They made me popular”. Poi racconta di un taxi a Buenos Aires che non accetta la sua corsa e gli grida “comunista!” Insomma, un trasgressore, senza mai smettere di essere un tanguero, Piazzolla voleva trasformare il tango in qualcosa di più universale, ma per molti anni nel suo paese non fu capito.

Astor Piazzolla è il prodotto di una tradizione e, al tempo stesso, rappresenta la rottura di quella tradizione. Piazzolla ha rotto il paradigma del tango e i tradizionalisti non l’hanno mai perdonato. Nelle sessioni di registrazione a Parigi, nel 1955, Piazzolla adottò l’abitudine di suonare il bandoneon in piedi, con una gamba appoggiata ad una sedia a dispetto di tutte le convenzioni. ‘Non riuscivo a vedere i musicisti al mio stesso livello’. In un’altra occasione ha dichiarato: ‘Dovevo sentirmi al di sopra di loro’. Da quella posizione poteva guardare e dirigere l’intera orchestra. Non gli era mai piaciuto suonare il suo strumento seduto, gli ricordava molto una signora anziana che fa la maglia. ‘Penso anche che balliamo insieme io e il bandoneon” avrebbe detto anni dopo. Quella postura simboleggiava il mondo che stava cercando di rinnovare. Suonare in piedi era la sua dichiarazione di indipendenza. La lotta in argentina tra i piazzollisti e gli antipiazzollisti è durata decenni. Promotore di un profondo rinnovamento della muscia del tango, Piazzolla era in continua evoluzione e il suo lavoro rifletteva Buenos Aires, il rumore della società contemporanea e l’intera gamma delle emozioni umane. Venerato e insultato, è morto nel 1992, oggi è considerato una delle glorie della cultura argentina.

Maria Susana Azzi, Astor Piazzolla ha introdotto nel tango nuovi elementi armonici e ritmici, qual è la sua modernità?

E’ molto difficile fare un tango nuovo senza l’influenza di Piazzolla. La sua musica è una fusione intelligente tra il tango, il jazz e la musica classica contemporanea. Da ragazzo aveva vissuto a new York e lì ascoltava il blues, il ragtime, il klezmer. I suoi idoli musicali sono stati Bach, Béla Bartók, Stravinsky, Vivaldi, Hindemith, Ravel. La sua melodia è pucciniana e, guarda caso, Puccini è nato a Lucca e i nonni materni di Piazzolla sono nati a Villa Collemandina, in provincia di Lucca”.

Toscani di Massa Sassorosso dove nel 2013 è stata inaugurata piazza Astor Piazzolla e i nonni paterni erano di Trani in Puglia. L’Italia amava e ama Piazzolla. Astor Piazzolla amava l’Italia?

“Piazzolla amava l’Italia, quando si trasferì dall’Argentina all’estero per la seconda volta, da adulto, ha scelto l’Italia e ha vissuto a Roma. Si sentiva italiano, nel mangiare, nel bere, adorava le donne, i film e la musica italiana. E’ tornato in Italia tante volte, è stata la sua collaborazione con Milva che l’ha reso famoso in Italia. La storia di Piazzolla è anche una storia simbolo dell’emigrazione italiana. Mi hanno chiesto tante volte se Piazzolla fosse italiano, era un italo-argentino che come tanti di noi, aveva l’Italia nel cuore. E’ la nostra seconda patria”.

La sua casa romana era in via dei Coronari, ha collaborato con Mina e Milva e, nel 1974, ha scritto e inciso uno dei suoi brani più celebri, “Libertango”, proprio in Italia. Con Pino Presti al basso elettrico, Tullio De Piscopo alla batteria e percussioni, Andrea Poggi, ai timpani e alle percussioni, Filippo Daccò alle chitarre, Felice Da Vià al pianoforte e organo, Giovanni Zilioli, organo e marimba, il violino di Umberto Benedetti Michelangeli, la viola di Elsa Parravicini, il violoncello di Paolo Salvi, il flauto contralto di Marlaena Kessick e il flauto soprano di Giann Bedori e Hugo Heredia. Libertango è un capolavoro inciso dalle orchestra di tutto il mondo, è diventato un successo anche nella versione elettropop di Grace Jones, è un brano che quando parte non può lasciarci indifferenti, in qualche modo risveglia qualcosa in tutti noi. Che pensava Piazzolla di Libertango?

"E’ stata una rivoluzione anche per lui, pensava alla libertà, infatti le parole di Horacio Ferrer parlano di libertà, quella libertà con responsabilità che ha sempre cercato Astor Piazzolla".

A Cuba, un giornalista gli chiese: lei esprime in musica ciò che non può dire in Argentina? Ma lui, che definiva la sua musica rivoluzionaria, non rispose.

“Glielo impedì il suo manager, chiudendogli il microfono. Piazzolla non è mai stato un animale politico, è stato soltanto un musicista tutta la sua vita, fino alla fine”.

Timisoara Pinto

Il servizio a "Prima fila" su Radio1

lunedì 8 marzo 2021

Sanremo 2021. La tua banda suona il rock... in un’eterna ripartenza

E’ appena finita la settimana in cui tutto si sanremizza: la musica, la tv, i giornalisti, i gusti, le parole. Sanremo è un grande rito nazionalpopolare e tutto viene riparametrato all’internodi quel recinto. Un esperimento di psicologia sociale, oltreché di comunicazione di massa. "Rivoluzione” riferito ai Maneskin, un termine utilizzato da uno dei maggiori quotidiani e intorno al quale giustamente si è scatenato il dibattito sui social, risuona troppo sbilanciato, eccessivamente ottimistico, almeno così arriva ai tanti che guardando Sanremo a distanza, al di fuori del meccanismo festivaliero, non sono travolti dallo stesso entusiasmo e neanche lo capiscono. Per il Giornale Radio ho trasmesso il commento a caldo del critico Stefano Mannucci, grande penna del giornalismo musicale, che ha dichiarato: “I Maneskin hanno ribaltato l’Ariston, hanno portato quell’energia che manca ovunque nel paese. La loro vittoria certifica l’approdo del rock italiano al tavolo importante della musica. Il loro brano, dedicato a un professore che diceva solo “State zitti e buoni”, alla vigilia del ritorno di tantissimi studenti alla didattica a distanza, può essere interpretato come un segnale importante. E’ il rock italiano che dice qualcosa di sensato”. Ecco quello che ci è mancato soprattutto, la reazione del pubblico in sala, la standing ovation sull’intonazione e il possesso del microfono da parte di Orietta Berti, 77 anni e senza ear monitor. Avrei voluto vedere il pubblico, se davvero si sarebbe scatenato sui Maneskin, perché quello che riempie le poltrone dell’Ariston è un pubblico di età medio-alta, insomma una fascia anagrafica diversa da quella che con il televoto ha decretato la vittoria del gruppo romano. E’ chiaro che il termine utilizzato è una metonimia, dove l’Ariston sta per “pubblico che guarda Sanremo da casa” (quest’anno l’unica modalità possibile peraltro) quindi, il ribaltamento a cui allude Mannucci, riguarda il coinvolgimento di un pubblico che si è avvicinato alla musica attraverso i social e i talent tv. E’,infatti, con il televoto e la Sala Stampa, che i Maneskin hanno ribaltato la classifica: dopo le prime due serate erano quindicesimi nelle preferenze della giuria demoscopica, (quella composta da 300 persone, un campione statisticamente rappresentativo selezionato tra abituali fruitori di musica). Alla fine della terza serata, i Maneskin erano decimi con la cover di “Amandoti” dei CCCP, eseguita con il loro talent scout Manuel Agnelli, e grazie al voto dell’orchestra del Festival. Con il voto della sala stampa, i Maneskin sono risaliti al quinto posto e, infine, giornalisti accreditati e televoto sono le due giurie che, nella terna finale, hanno consegnato leone e palma d’oro alla band romana. Sono i risultati del televoto che hanno fatto gridare al miracolo. Nel Sanremo della pandemia, il pubblico degli adolescenti esulta e si commuove per il trionfo dei Maneskin, “Zitti e buoni” è un pezzo energico, un serenata sfrenata al "chiaro di luna" (Maneskin in danese) che incarna la voglia di urlare di tanti ragazzi, in questo anno difficile per la loro crescita, ragazzi che si sentono improvvisamente rappresentati da un festival che ha appena compiuto 71 anni. Collezionano like e visualizzazioni, come del resto i secondi Fedez e Michielin e il terzo classificato, Ermal Meta. L’equazione “forti sui social, forti a Sanremo” quest’anno ha funzionato, ma sono il coprifuoco, la socialità filtrata dagli smartphone, che hanno rivoluzionato la classifica. Decisivo è stato il voto di quella fascia d’età,la stessa o poco meno, di Victoria, Damiano, Ethan e Thomas, che sono belli, ammiccanti e sexy e si scatenano cantando "Siamo fuori di testa". Da un punto di vista musicale, rivoluzionaria è stata la vittoria di un brano che strizza l’occhio ai canoni trasgressivi del glam-rock e non un brano rap e o trap, ad esempio. Quello che era rivoluzionario fino all’anno scorso per stampa e addetti ai lavori, improvvisamente non lo è più? Insomma, la vera notizia è che ha vinto la trasgressione tradizionale delle rockband, hanno vinto le chitarre (per il mainstream sembrava che dovessero sparire) e non la moda dell’autotune. Togliete l’autotune dal bel pezzo di Madame (la mia preferita insieme a La Rappresentante di Lista e Colapesce/Dimartino) e apprezzerete meglio anche quello che dice in “Voce”, che guarda caso, ha vinto il premio Sergio Bardotti per il miglior testo. Quello che alla fine non torna è perché tutto questo tripudio? Perché dovremmo sentirci meglio per la vittoria di un artista che rappresenta i giovani e non, ad esempio, per un quarantenne o cinquantenne? A Sanremo quest’anno fortunatamente ci sono stati ottimi debutti, artisti fortemente voluti proprio perché arrivavano da palchi e contesti lontani dalla grande discografia, ma ci sono stati anche artisti “sanremesi”, dei veri e propri habitué. Ecco, alcuni di questi, finiti in mezzo o in fondo alla classifica, sono apparsi quasi come dei classici, più vicini a Orietta Berti che ai Maneskin, su cui neanche i bookmakers hanno scommesso qualcosa. Eppure sono i quarantenni e i cinquantenni i “giovani” ascoltatori di musica, quelli cresciuti con la capacità di apprezzare l’emergente e il veterano. Diciamo che purtroppo tra quelli, la categoria “e allora noi cosa rappresentiamo?”, una canzone che emergesse sulle altre, non c’era. Ma torniamo al punto: perché dovrebbe essere un valore piacere agli adolescenti, rincorrere il loro gusto? Ci poniamo questo problema nelle altre arti? Perché l’artista che fa musica deve rincorrere un linguaggio comprensibile ai ragazzi? Quando scriviamo un libro, realizziamo un film o uno spettacolo teatrale accade questo? In quei campi esistono, infatti, settori specifici come la letteratura per ragazzi. Attenzione, perché da qui discende la considerazione della musica, la distinzione in etichette come musica leggera o di consumo, commerciale, in cui va a finire anche il meglio del pop universale. Un’idea ce l’avrei. Fino ai 18 anni tutti scrivono poesie, diceva Benedetto Croce, poi rimangono a scriverle due categorie di persone, i poeti e i cretini. E così anche nella musica. Fino ai 18 anni tutti “consumano” musica, poi crescendo,restano solo due categorie ad amarla e a viverla completamente, pochi appassionati e noi “addetti ai lavori”, i poeti e i cretini. Con amore. Timisoara Pinto

domenica 31 gennaio 2021

“Mannaggia a me” di Piero Brega: il distillato della coscienza umana è la canzone popolare

Da Dylan alla musica popolare, dal vicolo della desolazione alla borgata romana. Andata e ritorno.

“E non m'importa dei quattrini 

non m'importa del successo 

tale difetto m'ha permesso 

di evitare me stesso”

(Piero Brega “Il sorriso di un pensatore”)

Mannaggia a me (Squilibri) Uno splendido caos (Stampa Alternativa)

Si apre con l’autobiografica “Il sorriso di un pensatore”, il nuovo album di Piero Brega e basta arrivare alla terza quartina (che ho inserito sotto il titolo di questa intervista) per capire perché abbia scelto un titolo solennemente ganzo come “Mannaggia a me”. Ad ogni modo, non posso fare a meno di chiederlo direttamente a Piero e partire da qui, in questa lunga chiacchierata da soffitta a soffitta, Attigliano-Roma.

Dopo 11 anni, un nuovo disco generoso di sentimenti per le tue radici e per tutto quello che oggi ci circonda, perché il titolo “Mannaggia a me”?

E’ un po’ un ventaglio di tante cose, c’è dentro un po’ di blues, di avanspettacolo, un po’ di Dylan probabilmente, e un po’ di musica popolare italiana, però sono canzoni che mi riguardano. Quando nella vita hai enumerato diversi fallimenti e cominci ad avere un rapporto con te stesso che è di considerazione della tua limitatezza, la cosa che ti viene in mente più spesso è  “Ma guarda un po’ come diavolo sono fatto io”

E allora, come diavolo sei fatto?

Ho cercato di raccontare proprio questo, come diavolo sono fatto, e poi anche attraverso un libro di racconti brevi dal titolo “Uno splendido caos”, ho provato a fare il punto della situazione. Diciamo che ho la capacità di vedere come stanno le cose ma non per cambiarle.

Foto di Timisoara Pinto
Quindi sei "uno splendido caos" come il titolo del libro?


“Sicuramente oggi le cose sono molto confuse, c’è la morte della politica, una crisi di instabilità, c’è un’America spaccata in due, forse anche un’Italia spaccata in due, raccontare le storie, raccontare come siamo messi, è la cosa che mi interessa.
Uno splendido caos si riferisce anche a quello strano equilibrio che c’è nell’universo, dove enormi forze contrastanti si scagliano l’una contro l’altra e sembra che tutto rappresenti un’eterna disfatta, un’eterna battaglia, però, tutto quello che ci circonda ci regala delle albe e dei tramonti meravigliosi e la natura intorno a noi è sempre sorprendente, sia nei dettagli che nell’insieme, cerchiamo di non perdere il coraggio, la voglia di cambiare, la voglia di andare avanti. Credo che, in questo periodo così racchiuso dentro le case, ognuno immagini dentro di sé una specie di ripresa ideale che avverrà prima o poi, in cui finalmente si potrà dire qualcosa di nuovo, perché il mondo è comunque cambiato”.

Sei un pensatore che, malgrado tutto, sorride sempre e anche un vecchio marinaio senza mare, due brani che sono due autoritratti in parole e musica

“Un marinaio senza mare è il colmo della nostalgia, della mancanza, dell’assenza, che però si aggira per le strade senza rabbia, quasi con ironia nel vedere la sua sorte così difficile, ma nel frattempo continua a guardare le sue nuvole e a ragionare sul mondo”.

Prima hai detto “sono canzoni che mi riguardano", ma riguardano, per citare un altro brano, anche questo "tempo arido", tra disillusione e riconoscimento dei nostri limiti

“Tempo arido” è la covid-song dedicata alla solitudine di questo tempo che accomuna tutto il mondo, in cui il mare che mi manca è il mare del movimento, delle manifestazioni pubbliche, il mare che c’era quando c’era il movimento degli studenti, quando c’erano i partiti, quando c’era qualcosa per cui il tuo interlocutore, anche sconosciuto, che incontravi per la strada, era in grado di sostenere un dialogo sui massimi sistemi, perché tutti quanti stavamo agganciati ai massimi sistemi. Adesso accendi la televisione, e ti trovi in mezzo al luogo comune, anche se scritto in lettere maiuscole, ma sempre luogo comune è. Poi c’è anche “In mezzo al mare” che parla di un uomo che nuota di notte, e in questo nuotare sopra un mare colmo delle sue bugie, della sua vita mediocre, tutto sommato, recupera con l’accettazione del suo destino, un minimo di felicità”.

L’ultima canzone si chiama “centomila pensieri fuggono”, quali sono questi pensieri che ci sfuggono? 

Non è una canzone sull’Alzheimer, i pensieri che ci sfuggono, che si nascondono alla nostra coscienza, sono quei pensieri che non vogliono essere sprecati per sopravvivere nell’attimo. Tutto sembra non avere tempo, il tempo è tagliato, le risposte vanno date immediatamente, forse alcuni pensieri che noi facciamo più profondi, più larghi, più sapienti, poi li nascondiamo dentro di noi, e non ce ne ricordiamo neanche conto, invece dovremmo starci attenti.

Foto di Timisoara Pinto
Hai scritto da qualche parte, nel libretto: "E' più facile apostrofare il mondo con un canto popolare", lo immagino, ma parla tu


Sì, è più facile apostrofare il mondo standosene belli protetti dentro una canzone popolare, dentro un documento storico. Questo implica il fatto di non prenderti nessuna responsabilità, sei soltanto l’esecutore di un modo bello, se sai farlo bene, di cantare una storia, che però è già stata raccontata.Va bene una storia antica, magari bella, magari da ricordare, ma non è quello che ti passa per la mente, nel senso che tu devi anche un po’ raccontare delle storie nuove. Succedono delle cose, senza tradire la tradizione,  questo ho provato a fare in questo ultimo cd e continuerò a farlo. Naturalmente, racconto di questi tempi che sono aridi, senza politica, completamente sprecati. La canzone “Dal lago della giovinezza” parla proprio di questo, con una specie di pastore errante per l’Asia che se la prende con la luna e ho preso un po’ Leopardi a testimone di questa storia. E' un modo di rapportarsi alla divinità in una maniera pagana, se tu mi dai quello che ti chiedo, ti rispetterò, ti adorerò e ti farò delle offerte, ma se le cose non vanno come voglio io, allora ti dirò che sei una luna bugiarda, sei una luna biancastra che non sai dirmi nulla di nuovo. Ecco mi sembra che oggi ci sia questa specie di scontentezza, un atteggiamento un po’ pagano nelle preghiere in cui tutti pretendono qualcosa. Mi viene in mente quella frase di Kennedy, “Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”, e infatti alla fine la luna si rivolge a questo povero pastore e lo bacchetta in tutti i modi perché, insomma, non è questo il modo di rapportarsi con il destino. Mettiti in gioco, fai le cose, e invece, mi pare che non ci sia una gran volontà di fare le cose, soprattutto in politica, ma di rivendicare, arrabbiarsi e soprattutto di chiedere, chiedere, chiedere.

Non c'è solo Leopardi, "Nella città dolente", inizio di "Strada scura" ci porta subito a Dante. Cos'è Dante per te, che, tra l’altro, hai intitolato un tuo disco “Fuori dal Paradiso”?

Ho letto la Divina Commedia quattro volte, c’è anche Pascoli, abbiamo tanti grandi poeti, del resto, come si dice, il nostro è un Paese di santi, poeti navigatori, transmigratori… io non è che voglio essere un poeta, ma mi piace leggere questi grandi che ci hanno dato la linea. Dante diceva io scrivo in italiano perché è la lingua dell’amore, è la lingua con cui si parlavano i miei genitori quando mi hanno messo al mondo, l’italiano rappresenta l’amore.

Piero, non c’entra niente con te e con quello che stiamo discendo, ma lo sai che ora, mi hai fatto tornare in mente alcune interviste che Rino Gaetano fece in radio, e avete la stessa cadenza, la stessa romanità nella voce. Lo hai conosciuto Rino Gaetano?

No, in quel periodo frequentavo il mondo della musica popolare, anche se gli riconosco la capacità di raccontare una storia con quattro parole. ‘Il cielo è sempre più blu’ è veramente l’analisi di un dramma, Rino Gaetano scherzando, saltellando e giocando con il suo cilindro in testa, raccontava dei drammi, delle storie molto forti, però la sua capacità di sintesi era veramente un po’ troppo. Bisognava entrare nelle sue strofe, fatte di tante ripetizioni, per capire poi cosa c’era sotto. Io non è che ci sono riuscito molto, però, dalla sua popolarità, vedo che altri ci sono riusciti molto bene, e non credo che cogliessero soltanto la spensieratezza e l’allegria della parte musicale. Rino Gaetano è solo una persona che non ho incontrato, ma il suo messaggio mi è arrivato lo stesso.

Di quell’allegria, cosa condividi? 

Il mio disco è musicalmente anche allegro in certi punti, anche se io allegro lo sono solo per brevi momenti, di solito sono più meditativo e introspettivo. La mia giornata è abbastanza silenziosa, il mio essere allegro, il mio scherzare, forse viene fuori solo per non affrontare il tema serio quando sono insieme agli altri, i temi profondi me li aggiusto e me li affronto per conto mio.

Tu eri più battistiano?

Battisti mi è piaciuto molto, quando l’ho visto le prime volte ho detto, questo ragazzo si farà. Non mi identifico neanche con lui, anche se ha detto tanto e quel “Signore, chiedo scusa anche a lei”, ne è un esempio. Poi, all’epoca se uno non si dichiarava apertamente comunista o compagno, automaticamente veniva sbattuto dall’altra parte. Ora, probabilmente, lui era soltanto un individualista come lo siamo tutti, però c’è da dire la verità: nei suoi pezzi mi pare ci siano soltanto delle storie private, c’è un poca società .

Foto di Alberto Marchetti
Però i testi li scriveva Mogol…

Sì indubbiamente ma uno non canta una cosa che non condivide. Mogol e Battisti hanno girato l’Italia insieme a cavallo, erano culo e camicia, l’uno valeva per l’altro. 

E oggi ti piace il rap, almeno così hai scritto da qualche parte 
Il rap in generale mi piace tutto, preferisco quello americano perché ha delle interruzioni, dei punti di stop, delle ripartenze ritmiche basate sul suono e sulla ritmica delle parole che mi interessa molto. Anche in Italia ci sono dei geni perché una volta ho visto una gara tra rappisti che improvvisavano ed era veramente molto interessante, anzi addirittura li ho invidiati, ma in realtà molte volte, specie nel rap più di successo, incontro solo quei versetti che corredavano le illustrazioni del Corriere dei Piccoli, “il signor Bonaventura… I veri maestri sono negli Stati Uniti.

Musicista e architetto, conosci e interpreti il linguaggio delle città, il tessuto urbano con cui abbiamo a che fare quotidianamente, le stratificazioni territoriali e sociali che si traducono in versi. Piero, il tuo modo di leggere e interpretare i luoghi da architetto, ha influito sul tuo "folk urbano"?

Sicuramente. Io non avevo mai fatto il punto su questa cosa, anche se spesso ad Architettura me lo chiedevano, ma io non trovavo nessuna relazione, invece in tarda età, mi sono reso conto che la musica e l’architettura hanno un legame strettissimo nel loro elemento più importante, la struttura. In particolare, Roma per me è il posto che ho girato in motorino da sempre, forse la conosco come potrebbe conoscerla un tassinaro, è chiaro che ha influenzato tantissimo le parole delle mie canzoni. Roma è un libro di pietra, ha nelle sue stratificazioni, se le sai leggere, tutta la sua storia. Adesso abito in Umbria, sono come un antico romano che sta in villa, ma Roma è dentro di me, io sono Roma. 

“San Basilio”, “Mannaggia  a me”, è ancora Roma lo sfondo di tante storie cantate, com’è

Piero Brega nel 1975

cambiata dagli anni 70? 

Forse sono solo i ricordi giovanili che soffondono di una luce dorata gli anni 70, però mi sembra che allora ci fosse più una mobilità intellettuale, una capacità di capirsi, una volontà di parlare con gli altri, quindi c’era più dialogo, interazione, c’era più interesse per quello che diceva un altro, adesso siamo tutti un po’ più soli, il nostro vicino non è più lo spunto per un dialogo, ma forse è uno sguardo di invidia, se non di odio. C’era una canzone di Enzo Del Re su San Basilio, suonava la sedia e raccontava di un’occupazione di case, interventi della polizia. Poi ci sono tornato una volta con Alessandro Portelli, quando era assessore, mi ero portato la chitarra prima del suo intervento, voglio molto bene a Portelli e in quel momento eravamo legatissimi, siamo arrivati a San Basilio e in quella piazza c’erano cinque persone, io mi ricordo che negli anni ‘70 quando c’era il PCI che parlava in piazza, c’era l’enorme folla, le migliaia. Rimpiango un po’ quella cosa lì, augurandomi che possa succedere di nuovo, perché non possiamo tirare avanti per sempre come stiamo, su questo non c’è dubbio.

“Mannaggia a me”, oltre al titolo del cd, è anche la terza canzone dell’album.

“C’è un riferimento abbastanza fisso nel mio disco, che è il percorso che facciamo seguendo quel barbone felice della prima canzone, quello che sorride malgrado il suo stato di povertà assoluta, che decide di abbandonare la società nel suo complesso e ci porta in giro per diverse stazioni. Ci si presentano prima dei barboni che litigano sotto la stazione Termini e uno che scaglia tutti i suoi anatemi, li scaglia, in realtà, anche contro di me, che sono lì a guardare con occhi sgranati e queste maledizioni le sento anche addosso a me, perché se lui sta in quella condizione è anche colpa mia.

Tornando a “San Basilio”, già inserita in “Come li viandanti”, album del 2004 che svelò il Piero Brega cantautore, la riproponi qui con un nuovo arrangiamento e la band al completo

Mi interessa molto questo modo nuovo di raccontare le storie, in una forma quasi di rock, un po’ americana, con l’ausilio di una nuova band, un sestetto clamoroso.

Ti accompagnano, infatti, Oretta Orengo all’oboe, corno inglese e canto, Ludovico Piccinini alle chitarre e charango, Emanuele Marzi al basso, Piero Fortezza alla batteria, Luciano Francisci alla fisarmonica. Con Piccinini, da qualche anno, porti in giro il concerto su Bob Dylan, di cui hai tradotto molte canzoni. Qual è stato l’impatto di Bob Dylan per i cantautori della tua generazione?

In un’epoca di grandi gruppi elettrici e spettacoli musicali con decibel esagerati, viene fuori questo uomo né alto, né basso, né brutto, né bello, che canta con voce che viene, lì per lì, dichiarata voce da ubriaco e intona delle ballate, delle storie americane che sembrano portate avanti da un cowboy, con una semplicissima chitarra acustica e un’armonica a bocca. Le prime canzoni di Dylan parlano di un mondo semplice, interessante che ci incuriosisce. In una classe di 25 studenti, potevi trovarne la metà che suonavano la chitarra e tutti che volevano imparare il fingerpicking.

Piero Brega e Oretta Orengo,
coppia straordinaria sul palco e nella vita

E per te, nella tua vita, cosa ha rappresentato l’arrivo di questo personaggio fuori dagli schemi?

Sarà stata l’estate del ’66 o ’67, a Fano, c’erano le comitive al mare, nascevano amori estivi, dei flirt brevi, ma molti intensi. Conobbi Veronica, una ragazza francese, figlia di un romano che lavorava al Consolato a Parigi. Fu lei a regalarmi il 45 giri di ‘Desolation row’, e proprio lì nel porto di Fano, Veronica arriva una sera con un mangianastri, lo poggia sulla tolda di un vecchio peschereccio in disarmo, e ci mettiamo ballare su questa canzone. Non capivo il testo, né mi interessava, in quel momento tutto era tranne che quel mondo assurdo di una strada malfamata, dove accade una rappresentazione terribile. Più tardi mi ci sono avvicinato con l’intento di studiarlo. Naturalmente sono partito dalla bandiera iniziale, ‘Blowin’ in the wind’, che parlava di un cannone che non doveva più sparare colpi, di una colomba che doveva attraversare il mare e di un vento di liberazione che soffiava. Il fatto di dirlo così e non in pompa magna come i grandi gruppi rock, dava l’idea, a noi studenti, che forse, molto semplicemente, potevamo rimontare il mondo con una chitarra e un’armonica, non c’era più il bisogno di comportarci in un certo modo, bastava dire quello che avevamo in testa e questo è il grande merito di Dylan. Poi c’era un Dylan diverso, quello della cosiddetta seconda ondata, dagli anni 80 in poi, quello che si interessa all’occultismo, alla politica internazionale, che spazia imperturbabilmente in tutte le filosofie mondiali, ma trovati i limiti di tutte le ideologie, Dylan a un cero punto dice “Io credo nelle canzoni, l’ultima forma di saggezza dell’umanità”, alla fine, l’unica cosa che rimane in piedi è la canzone popolare, il distillato della coscienza umana è la canzone popolare.

Timisoara Pinto

Foto di Cristina Canali