giovedì 22 ottobre 2015

Cesare Basile e la favola del lavoro



"Tu prenditi l'amore che vuoi e non chiederlo più" è una lunga marcia contro un'Italia marcia. E' il passo inquieto di Basile, Cesare Basile, che usa la favola di Orazio Strano, il padre dei cantastorie siciliani, per adunare come fa il banditore quell'umanità che va avanti, per dirla alla De Andrè, in direzione ostinata e contraria.

Il “cuntaro” siciliano, con l'incedere folk e blues della band dei suoi “caminanti”, mette in musica i personaggi archetipi dell'infanzia per fronteggiare le contraddizioni di oggi. Cantante con la voce che incanta e autore che sa illustrare il suo canto: “allesti cunti si non voi 'n patruni” dice Basile nella canzone manifesto che apre il disco, un omaggio a coloro che hanno scelto di vivere una vita orgogliosa, personale, unica, raccontando le cose agli altri, “una maniera di sottrarsi a una dinamica produzione-consumo tipica dei nostri giorni, al lavoro come religione, fatto passare come requisito necessario per stare al mondo, per essere rispettati”.

“Araziu Stranu” è come Ciccio Busacca, bracciante e muratore, o come Muddy Waters, raccoglitore nei campi di cotone dei bianchi. Quando Alan Lomax gli chiese perché suonasse la chitarra, il bluesman di Chicago rispose: “perché voglio andar via dalla piantagione, non lavorare più”. “Libertà mi fa schifo se alleva miseria” è forse il verso che condensa al meglio la morale della storia, la chitarra di Basile, il suo rosario, è una fionda: “una persona che lavora viene sequestrata in cambio di un salario che non gli lascia niente, non gli dà il tempo di vivere, di crescere, e nemmeno il tempo di lavorare per se stesso”.

Il cd a tinte forti di Basile convince di nuovo, a distanza di due anni, la giuria delle Targhe Tenco, ma questa volta, dopo una serie di avvenimenti legati alla Siae e ai suoi protagonisti, il cantautore catanese ritirerà il suo premio, a dimostrazione che la coerenza premia anche nella musica e il tempo è un grande autore.

da "Il cantautore" Numero unico del Club Tenco Sanremo 2015

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sabato 17 ottobre 2015

Cantando tutti in coro con Guido De Maria

Premio Tenco 2015 al Re dei "dopocenisti" e del fumetto in tv



Dopo gli anni goliardico-gucciniani e le bisbocce in compagnia del suo pirata preferito, il momento è solenne: il disegnatore Guido De Maria ritirerà sul palco dell'Ariston a Sanremo, il Premio Tenco 2015 all'operatore culturale.
Il disegnatore e autore Guido De Maria

83 anni, veloce e vispo come i nanetti che ha disegnato per la pubblicità, accenna al telefono “Loacker che bontà” per dirmi che l'azienda del wafer delle Dolomiti è ancora il suo cliente più importante. “I piatti-ti-ti, i piatti-ti-ti...con Nelsen piatti li vuol lavare lui” gli rispondo io in un susseguirsi di citazioni, e Guido mi dice “anche quella è mia”, ma subito aggiunge “I testi, per la precisione. Le musiche erano di quel genialaccio di Franco Godi, il più grande jingolista italiano”.

Francesco Guccini, Giancarlo Roversi, Bonvi
Nell'edizione della rassegna della canzone d'autore dedicata al suo amico di sempre, Francesco Guccini, uno dei premi più importanti è un riconoscimento alle origini stesse della manifestazione e ai “tre matti che hanno contribuito a costruire le fondamenta umane del Club”. Il trio (uno tra i tanti, a dire il vero, che cantando-mangiando-bevendo animavano la rassegna) era composto da De Maria, Guccini e Franco Bonvicini detto Bonvi, il disegnatore scomparso nel '95. Un sodalizio nato quando i bambini andavano a letto dopo Carosello. Insieme crearono Salomone, pirata pacioccone con Guccini autore e sceneggiatore per l'Amarena Fabbri e all'occorrenza anche comparsa. “Lo chiamavo a recitare nei caroselli, per quei famosi trenta secondi che oggi sono diventati la pubblicità. Ma lui sostiene che era solo un modo perché venisse anche Roberta, la sua prima moglie, una ragazza molto bella, alta, appariscente con un viso da primo piano, mentre lui sfilava lontano, sul fondo”. 
L'incontro con Francesco avviene però anni prima. “Mi avevano parlato di un ragazzo che suonava in un locale di Bologna chiamato La grondaia. Una sera tentai di registrare una canzone, ma ad un certo punto cominciai a fargli dei gesti, a dirgli di scandire meglio le parole perché non si capiva niente. Cantava in modo molto chiuso, tutto rivolto verso di sè, ed io dal pubblico a dirgli “più chiaro, non riesco a registrare”. Ad un certo punto, lui smette di cantare, sento gli occhi degli altri avventori che mi guardano con disprezzo e Francesco, allora sì con voce chiarissima: “c'è qualcuno che mi toglie di torno questo rompicoglioni?” Fu naturalmente l'inizio di una grande amicizia.

“Formammo gli Archibusti – continua De Maria - , un gruppo di cabaret in cui Guccini aveva la funzione di fare le canzoncine per collegare i vari quadri, con quella erre malconcia mica poteva parlare, poteva solo cantare. Il cantautore, ecco cosa doveva diventare, e il mio unico scopo era non farlo laureare, ma lui voleva fare il professore. Un giorno mi chiama stupito perché aveva ricevuto la convocazione per l'esame alla Siae, ma non aveva mai inviato la richiesta. Per forza, gli risposi, l'ho mandata io!” Anche De Maria (che per Guccini era come un fratello maggiore di otto anni) aveva abbandonato un futuro da matematico e fisico per darsi alla passione che ora gli vale il Premio Tenco: il fumetto. “Operatore può anche andar bene, è culturale che mi preoccupa. Tra me e la cultura c'è un dissidio che va avanti da mezzo secolo”. 

Gli Archibusti di Francesco e Guido si esibivano al Ginko BiloBar di Bologna nel '65, ma il trambusto durò solo una stagione. “Ci offrirono persino di fare la traversata inaugurale di un nave della marina commerciale, non ricordo se la Michelangelo o la Raffaello. Alla fine ognuno di noi aveva i suoi impegni e ci sciogliemmo, ma l'esperienza degli Archibusti in qualche modo è confluita in alcune canzoni dell'album Opera buffa”. Mentre Francesco diventa Guccini con l'album della consacrazione “Radici”, Guido inventa un adattamento spiritoso di un detective noto come Nick Carter e lo porta in tv. Nasce un format televisivo, Gulp! e poi SuperGulp!, con strisce e nuvolette parlanti  interpretate da eccelsi doppiatori.

 

Figlio del veterinario condotto di Lama Mocogno, paesino ridente del modenese, arroccato a 900 metri sulla strada che porta al monte Cimone, dopo aver prodotto con la sua Vimder Film migliaia di Caroselli, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia come testimoni di nozze, suonatore di ocarina e cabarettista da crociera mancato, Guido De Maria va a ricordarsi di un vecchio baule in soffitta che conteneva alcune raccolte di gialli che leggeva il suo papà. La Rai, attraverso il responsabile dei progetti speciali Giancarlo Governi (sua l'idea di portare i fumetti in tv), chiese a lui, a Bruno Bozzetto e Paul Campani di scegliere tra Joe Petrosino e Nick Carter. “Campani fece Petrosino, Bozzetto il signor Rossi, ma tutti e due non riuscirono a liberarsi del loro specifico di grandi animatori, quindi venne fuori un prodotto ibrido tra cartone, fumetto e balloon. Io fui rispettoso del fumetto, facendo apparire le nuvolette sulle teste dei personaggi in sincrono con l'audio. Una stupidaggine, ma costrinse i telespettatori a leggere le battute”.
Se oggi il suo detective sarebbe sempre newyorkese non lo sa, ma di certo non si chiamerebbe Joe Petrosino: “perché avevo il timore di confrontarmi con un personaggio realmente esistito. Il caso volle che ritrovai questa collezione di gialli di mio padre, libriccini di 32 pagine, usciti per i tipi della Nerbini. Oltre a Nick Carter, che peraltro come personaggio letterario nasce nel 1886 dalla penna dell'americano John Russell Coriell, c'erano le storie di Buffallo Bill, Fantomas, Arsenio Lupin. All'interno del fumetto c'erano dei personaggi che si potevano proporre in maniera facile e divertente. Dissi allora a Bonvi: devi farlo alla maniera di Dick Tracy. Quel fumetto sembrava un film stampato, il racconto era di una perfezione cinematografica, con i campi lunghi, i dettagli, le angolazioni, i controcampi, insomma bastava riprendere vignetta per vignetta e ne veniva fuori un film. Nel giro di una settimana, Bonvi mi diede settantasei disegni con cui realizzai il prototipo di Nick Carter, il numero zero”.


In mezzo, però, c'era sempre il Tenco e da tempi non sospetti, quando la nascita del Dopotenco anticipò addirittura quella della rassegna vera e propria. Intorno a quelle cene che poi diventarono un rito irrinunciabile del dopo-serata, nacquero i discorsi, le strofe, i sogni e tra uno gnocco fritto e un prosit, i culturali propositi. “Al Tenco ero uno dei dopocenisti più assidui. Nei primi anni ci ritrovavamo al Pipistrello, una specie di cave parigina proprio davanti all'Ariston e divertivo il pubblico di queste cene con le mie invenzioni e stravaganze.
Il nostro capo clan era Carlin di Bra, non era ancora il Carlin di Slow Food ma lavorava per l'Arcigola, un ente che promuoveva prodotti delle Langhe. Il trio Carlin, Giovanni e Azio, un personaggio che non era alto più di un metro e trenta, era un'istituzione al Tenco, come il duo delle sorelle Nete, due vecchine tutte imbellettate con i pomellini rossi sulle guance, con chitarra e banjo, poi portate in televisione da Arbore”.
Tra le stravaganze di Guido De Maria possiamo probabilmente annoverare quella del già citato gnocco fritto. “Non lo gnocco fritto, avverte il disegnatore-fumettista, nonché abile cuoco – se lo chiami così non si digerisce. Si deve dire il gnocco fritto, alla faccia di tutta la grammatica italiana. E' una crescentina che si mangia insieme all'affettato. Io sono un maestro del gnocco fritto. Un anno, sarà stato l'85 o giù di lì, affittai per una mattinata intera il bar di fronte al Casinò di Sanremo, impastai quindici chili di gnocco, avevo portato le padelle da casa, impegnai tutte le mogli dei soci del Club per friggere e distribuire a tutti la mia specialità”.

Dopocenisti al Tenco: le Sorelle Nete con Amilcare Rambaldi e Carlo Petrini
Alle loro spalle: Giovanni Ravinale e Azio Citi del Trio di Bra
Un tenchiano della prima ora, come Guccini e come un altro decano del Club che quest'anno tornerà sul palco, Roberto Vecchioni. “Ma sai che a casa mia ho il suo biliardo? Un giorno mi chiama Roberto e mi dice: “mi nasce un altro figlio, non so dove mettere il biliardo. Proprio due mesi fa ho rimesso a posto il panno ed è più nuovo di quanto non fosse quando l'ho preso”.
Guido De Maria è come una striscia che finisce avvisandoti: “continua nel prossimo episodio” perché potrebbe non smettere mai di raccontare, ma la domanda arriva secca: che differenza c'è tra la canzone e il fumetto? “Il fumetto è una sintesi straordinaria”, anche la canzone dico io. “il fumetto è la sintesi immediata di pura fantasia o di qualcosa che fa parte del quotidiano”, più o meno come la canzone ribatto. “E poi doveva far ridere. La canzone poteva anche non far ridere”. Insomma non si possono paragonare. “Se parliamo di una canzone di Guccini, vale 800 vignette. Le canzoni di Francesco io le paragono alle storie di grandi illustratori come Hugo Pratt o di uno Staino quando disegna delle storie a seguire. I miei disegni erano più banali, meno colti. Pratt con i suoi racconti di straordinario respiro è come Melville per la letteratura”.

Tra i disegnatori giovani c'è qualcuno che ha attirato la sua attenzione? “Zerocalcare mi piace molto, nel suo modo di rendere il segno mi ricorda Andrea Pazienza. Una volta Pazienza mi disse: “io posso disegnare tutto”. La ritenni una dichiarazione un po' presuntuosa, poi quando ho avuto il tempo di conoscere meglio tutto quello che aveva fatto, purtroppo quando non c'era più, pur avendolo frequentato tanto quando era in vita, ho capito veramente il valore di questa sua affermazione. Anche Zerocalcare ha questa capacità di disegnare come vuole, quando vuole tutto quello che vuole”
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E il papà di voi tutti,  del fumetto in Italia chi è? “Benito Jacovitti, il più grande, un mostro di bravura. Purtroppo, il fatto di essere vissuto in una latitudine che lo ha costretto a lavorare in Italia, chiuso in una dimensione legata all'Azione Cattolica, gli ha impedito di diventare il più importante disegnatore di tutti i tempi in tutto il mondo. Basti pensare che disegnava senza avere la traccia di matita sotto, usava direttamente la penna con un tratto prima sottilissimo che ingrossava via via. Non faceva altro che ricopiare un disegno che aveva in testa e che proiettava idealmente su un foglio bianco. A 17 anni disegna Cin Cin, un'opera immensa, due anni dopo fa il primo Pinocchio che è il più bello di tutti quelli che ha fatto dopo. Scusa, ma quando parlo di Jacovitti vado fuori di testa. Giancarlo Governi ed io siamo riusciti a fargli assegnare lo Yellow Kid a Lucca pur avendo contro una buona parte della giuria perché era considerato uno di destra, ma invece la sai una cosa? Una volta Jacovitti mi mostra un disegno e mi chiede: cosa c'è scritto su quel muro? Ed io: “niente”. “Segui quella crepa” e mi indica con la punta della matita tra fessure, tratti e disegni che c'erano su quel muro, la scritta “Abbasso il Papa”, questo per dirti quanto fosse anticonformista.

Resta alla fine un solo dubbio, se le donne erano più conquistate dalle canzoni tristi (si fa per dire) di Guccini o dalla voglia di De Maria di farle ridere? “Ti rispondo così: se Francesco dice che ha imparato a suonare la chitarra perché così cuccava, io ho cominciato a disegnare per far sorridere i miei compagni di scuola”.



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domenica 5 luglio 2015

Militava tra gli astratti.
L'arte figurativa e non... Nel segno di Remo Remotti


Ha inciso tre dischi ma non era un musicista, giocava con l’arte senza un compare e, col passare degli anni, la voce dell’ultimo Remo di Roma somigliava sempre di più a quella del suo mito: il re del jazz Louis Armstrong.
Poeta situazionista, attore poetico, pittore e ancor prima scultore che del congedo senza possibilità d’appello aveva fatto la sua espressione artistica più emblematica.

Qualche giorno fa è “inspiegabilmente morto” Remo Remotti. Il virgolettato è l’incipit dell’Amaca di Michele Serra, che in un solo avverbio condensa una vita, quella del coloratissimo Remo, catalizzatore e dissipatore di un’altalenante stagione durata circa un secolo. Eppure una spiegazione io ce l’avrei: Remo ha deciso di andarsene perché era l’unico modo per raggiungere finalmente Laura Antonelli.

Quando ho saputo della sua scomparsa, mi sono ricordata di questa intervista del 2008, della sua vita da pittore e scultore, ignota ai più, dei suoi sette anni in Perù (e non potevano che essere sette). Gli anni ’60 con la distinzione tra artisti figurativi e non figurativi, della sua frase: “ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia”. Il tutto partendo da un ritornello…

Una canzone che avresti voluto scrivere?

“Nel blu dipinto di blu”, un’esaltazione della vita, ci trovo un riferimento al “blu Klein”. Yves Klein è passato alla storia dell’arte per il suo blu metallico a cui forse fa riferimento Modugno.

Dove ti trovavi nel 1958, quando la canzone italiana volava con Modugno?
Uscivo dal manicomio in Perù, dove ero stato rinchiuso per una sciocchezza. Lì dentro mi procuravano abitualmente il coma insulinico. Dopo sette anni di Perù sono tornato a Roma distrutto, disoccupato, rovinato. Per fortuna, ho avuto solo due periodi così devastanti nella mia vita. Però, come tutti gli scorpioni dominati da Marte, grandi combattenti dello zodiaco, anche quella volta mi sono rialzato dalle ceneri. Fondamentale è stato l’aiuto di mia moglie, la prima, Luisa Loy, la sorella di Nanni. Sì perché io ho sposato due “Luisa”, Luisa Loy negli anni Sessanta e Luisa Pistoia, negli anni Ottanta.

Hai mai provato a suonare uno strumento?
Hai messo il dito nella piaga. Avrei pagato chissà quanto per poter suonare in un’orchestra jazz. Ho comprato per ben due volte una tromba. Sapevo suonare “La strada” di Rota e basta. Mio padre era un violinista, mia madre si era diplomata in pianoforte a “Santa Cecilia”, ma i miei genitori non mi hanno insegnato nulla. La colpa comunque è mia. La musica è il massimo, la tromba il mio sogno. Quando mi chiedono se per caso abbia fatto anche il musicista nella vita, rispondo: non ho avuto questo onore, come diceva Chaplin quando gli chiedevano se fosse ebreo. Un giorno, se guadagnerò un po’ di soldi, pagherò uno dei miei amici musicisti per farmi inserire in un’orchestra. Potrei chiederlo a Massimo Nunzi, farò finta di suonare, solo per il gusto di provare quell’emozione almeno una volta.

E le tue trombe dove sono finite?
Una l’ho regalata a Gianni Saint Just, perché era parente della mia prima moglie. La vita è fatta così, bisogna dare per ricevere. Non mi pento di averla regalata, anche perché poi, parliamoci chiaro, per suonare la tromba bisogna esercitarsi otto ore al giorno per quindici anni.

Per fare le previsioni dell’oroscopo quanto ci vuole?

Non confondiamo il dilettante con il professionista. Ci credo ciecamente e indovino spesso il segno zodiacale perché siamo fatti un po’ tutti con lo stampino. Nell’ultima guerra mondiale quattro grandi generali erano dello scorpione: Rommel, Patton, Montgomery, Zukov. Basta comprarsi un libretto da meno di 10 euro per farsi una cultura superficiale dei segni.

Il tuo ricordo più forte legato alla radio riguarda un annuncio…

Ero a piazza Quadrata, viale Liegi, in un bar con la radio accesa. Ascoltammo allibiti Mussolini che diceva dal Balcone di piazza Venezia: “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”. Sessanta milioni di morti lo stavano aspettando. Hai capito in che razza di mondo siamo cresciuti noi?

Però successivamente hai avuto modo di riabilitare la Germania, che in qualche modo aveva a che fare con questa dichiarazione, e di apprezzarla sotto altri aspetti…

Avevo lavorato con il pittore Emilio Vedova, sono arrivato a Berlino con una borsa di studio alla fine del ’67, alla vigilia del cosiddetto ’68 berlinese. Un periodo bellissimo che ho vissuto pienamente insieme alla mia prima moglie, la Loy.
Purtroppo poi mi sono innamorato di una tedesca e per la seconda volta in vita mia, non ultima, seconda, mi sono spogliato nudo in mezzo alla strada, sommerso dai sensi di colpa. Una macchina dei pompieri mi ha prelevato e mi ha portato nella clinica di Spandau,, a pochi metri di distanza dal carcere in cui era detenuto il braccio destro di Hitler, Rudolf Hess. Anche lui si occupava di segni zodiacali. Stranamente nel nazismo c’era un particolare interesse per l’astrologia. Poi, a novant’anni, Hess ha pensato bene di impiccarsi. Se l’avesse fatto prima sarebbe stato meglio.

Il disco a cui sei più legato è uscito proprio alla fine di quell’estate: “Hey Jude” dei Beatles.

Gioventù è sinonimo di stupidaggini che si fanno e di sofferenze. Per stare bene devi avere almeno settanta, ottanta anni, allora sì che stai come un Papa, perché fai le stesse cose che facevi a trenta con la differenza che lei fai bene, tranquillo e sereno, senza commettere grandi errori. Ero nell’atelier con questa ragazza per cui persi la testa e proprio mentre ci guardavano negli occhi, la radio trasmetteva “Hey Jude”.

Remo Remotti, senza diventare un musicista, ha inciso tre cd e tutti dopo gli 80 anni. 

Il momento migliore anche per la coppia: è l’amore più bello in senso totale, te lo dice il sottoscritto che è un addetto ai lavori. Invece, il grande Tyrone Power, poverino, a 44 era già morto, per non parlare di tanti altri.

Anche tante rockstar sono scomparse troppo presto.

Rino Gaetano, a trent'anni. Lasciamo perdere.

L’hai conosciuto?

No, ma semplicemente perché non si può seguire tutto. Io seguivo più che altro, il cinema, la pittura, il teatro. Però l’ho sentito. Come fai a non prestare l’orecchio a un tizio che dice “Nuntereggae più”? Ma vuoi sapere, invece, uno dei cantanti che più amo, di cui non abbiamo ancora parlato? E’ Leonard Cohen.

Poeta pittore, avete molte cose in comune… forse solo un po’ più mistico di te.

E’ stato addirittura chiuso in un convento per molti anni. Nella sua voce c’è la dolcezza e c’è la spiritualità. Io faccio la meditazione tutti i giorni. Vicino al mio letto ho il suo cd, mi metto lì in raccoglimento e ascolto “Tower of song” quando dice “Il mio destino è questo. Io sono nato con il dono di una voce d’oro”. Poi lo ascoltavo all’epoca di “Jesus was a sailor” negli anni’70 perché ero scappato da una tedesca che mi menava. Mi sono rifugiato in casa di amici a Monaco di Baviera e lì c’era questo disco che mandavo a ripetizione, mi piaceva da morire.

L’ultimo disco che hai comprato?

Me l’ha ordinato mia moglie: Bruce Springsteen. Devi sapere che io a casa mia conto molto poco. Stamane avevo indossato un paio di calzoni mimetici, ma Luisa mi ha detto: “se non te li levi, non ti faccio uscire”, ed io, come un bambino di sette anni, mi sono cambiato e ho avuto il permesso di varcare la soglia con un paio di calzoni normali, non mimetici.

Tra i libri da consigliare hai scelto “Consapevolezza” di Osho. Perché?

E’ stato un grandissimo. Potrei  paragonarlo senza paura di sbagliare a Freid, Jung, un grande cervello, un maestro spirituale che ci ha lasciato centinaia di libri, uno più bello dell’altro, che io leggo sempre con grande interesse.

Perché del Remo Remotti pittore si parla poco?

Il mio primo grande amore e la mia prima espressione artistica. Io ho cominciato tardi, a 35 anni, a quell’età Masaccio, Umberto Boccioni, Yves Klein, Piero Manzoni, Pino Pascali erano già morti. In qualsiasi campo dell’arte per concludere qualcosa devi avere un mercante alle spalle. Io sono nato nel cuore della borghesia romana. Per fortuna, non ho mai aspirato ai soldi, al denaro o al successo visto con il denaro. Ho scelto, si fa per dire, la miseria e l’umiltà che coincidono con la libertà d’azione. In tutti i campi, però, ci sono le mode e certi andazzi legati all’intervento del signor x o del signor y. Ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia.

Le tue poesie quando sono arrivate?

Devo essere molto riconoscente a Maurizio Costanzo e al suo braccio destro Roberto Silvestri che, nel 1984, mi fecero fare “Mamma Roma addio” nel programma tv “Fascination”, prima ancora del “Maurizio Costanzo Show”. Piacque tanto la mia performance che mi chiesero di farne una a settimana “Me ne vado da Milano” “Me ne vado da Napoli” e via di seguito. Così sono nate le mie poesie.

Tornando alla pittura, te ne sei andato anche da piazza del Popolo?

Non mi parlare di questo. Noi a fare la vita mondana, a prendere contatti con la nobiltà romana di piazza del Popolo, non ci andavamo. E’ per questo che ci sono tanti pittori che sono rimasti sconosciuti come Tonino de Laurentis, Emiliano Tolve e altri. Non è che ci fossero solo Cunelli o Franco Angeli. Io non penso affatto che Angeli sia stato un grande pittore, ho le mie riserve anche su Schifano, nonostante abbia visto ultimamente una sua bellissima mostra.
Il discorso è complicato. Esiste l’ufficialità ed esiste l’underground. Ci sono stati dei pittori come Giuseppe Uncini che sono stati veramente dei grandi. Voglio spiegarmi meglio: Mario Schifano, che sia stato un pittore giovane, molto dotato, non ci piove. C’è stato un momento di grande creatività, ci sono stati dei pittori in tutto il mondo che si sono inventati un linguaggio. Il più grande è stato Marcell Duchamp, ma questi romani di Piazza del Popolo, a parte qualche eccezione, hanno scopiazzato la pop art americana, tanto che la loro opera viene definita pop art italiana.

Dove è possibile vedere le tue opere?
La Galleria Giraldi di Livorno, grazie a Dio, ha comprato negli anni molte mie cose, togliendomi dalla fame. Una mia opera è stata acquistata dalla direttrice della galleria d’Arte Moderna, Palma Bucarelli, un doppio cubo è esposto nella Galleria d’Arte comunale a Roma in via Capo le Case, a Berlino ho venduto qualche pezzo importante in due Musei. Per fortuna, aggiungo io, perché se fossi diventato un pittore importante sarebbe stato difficile fare l’attore. Te lo vedi il signor Guttuso che recita con Marco Bellocchio? Ho lavorato con gioia, interesse e ingoiando qualche boccone amaro per vent’anni e passa. Però poi sono uscito dal ghetto della pittura e ho vissuto nel campo del cinema, dell’editoria, del teatro.

Qual era la tua scuola di riferimento?

A Milano c’erano Castellani, Manzoni, Sordini, mentre a Roma, Giuseppe Uncini, il Gruppo Uno, Tonino De Laurentis, Gastone Novelli, Eugenio Santoro, Guido Strazza, Marcolino Gandini.
Con Attilio Pierelli Pizzo Greco, Lorenzini, Icaro, Gino Marotta, avevo formato il gruppo “La nuova scultura italiana”. Purtroppo negli anni ’60 c’era questa distinzione tra artisti figurativi e non figurativi. Io personalmente militavo tra gli astratti.


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lunedì 9 febbraio 2015

Aspettando Felicità

Nella vasta letteratura fiorita in questi giorni sull'argomento, qualche curiosità sul brano simbolo della reunion "Al Bano e Romina"


Canzone “ad libitum” per eccellenza, ha scritto Gianni Borgna nel suo “L’Italia di Sanremo”. Ad libitum riguardo all’impianto musicale, ma anche riguardo al testo, dove la parola “felicità” è ripetuta 28 volte.
Scritta da Cristiano Minellono, Dario Farina e Gino De Stefani e prodotta dallo stesso Farina, è un esempio di synth-pop italiano con un’anima pugliese: l’ossessiva iterazione ritmica che la caratterizza, ne fa una pizzica griffata anni ’80.
E poi, naturalmente, l'interpretazione: se Al Bano ci mette le radici, Romina accende il suo “power”.

Al Festival di Sanremo 1982, dove la canzone si classifica al secondo posto, si canta dal vivo su base registrata e senza l’ausilio del gobbo elettronico, una stampella che verrà introdotta molti anni dopo.

La figlia del grande Tyrone appare spavalda e sicura di sé, Al Bano disorientato, entra in ritardo, poi recupera ma ha dei vuoti di memoria sul testo, ecco perché non stacca lo sguardo da Romina, che lo aiuta suggerendogli le parole, proprio mentre la telecamera intercetta le sue labbra. E’ lei la più amata dagli italiani, la vera artefice del rilancio discografico dell’ugola di Cellino reduce da anni di tour all’estero e di silenzio in patria.

“Una mamma in superclassifica”, titola Sorrisi & Canzoni TV del 5 marzo 1982, segnalando la presenza in hit parade di ben tre brani interpretati dalla Power, da sola o in coppia: “Sharazan”, “Il ballo del qua qua” e, naturalmente, “Felicità”.
Tutto merito dell’intuito di Freddy Naggiar della Baby Records, l’etichetta che sbanca il botteghino puntando tutto sulla bellezza e la dolcezza della figlia d’arte. Vincitori morali di quel Festival, Al Bano & Romina Power conquistano il primo posto la volta successiva, nel 1984, sempre per quella legge non scritta della compensazione che a Sanremo trova puntuale applicazione.
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Minellono, autore del testo, racconta di essersi ispirato ai fidanzatini della serie “Love is…” della vignettista Kim Grove e di averla scritta all’Union Studio di Monaco di Baviera, poco prima della registrazione: “Ero in clamoroso ritardo. Naggiar mi rinchiuse in una stanza con carta, penna, birra e sigarette, dicendomi che mi avrebbe fatto uscire solo col testo finito. Gli consegnai 25 strofe: "Ecco qua… scegliti le 15 che preferisci. Il suo commento fu che felicità era una parola d’antan. Gli risposi che presto sarebbe ritornata di moda. Risultato: 10 milioni di copie nel mondo”. Oltre a un Golden Globe in Germania per il disco più venduto dell’anno.
“Quando Naggiar me la propose – gli fa eco Al Bano - accettai subito, perché venivamo fuori da quindici anni di Italia vestita a lutto. Per fortuna all’inizio degli anni Ottanta le cose erano mutate e noi lo volevamo ribadire, con un semplice inno. In quel periodo i cantanti ricorrevano ai mezzi più stravaganti per imporsi, le nostre canzoni erano invece pulite, e pertanto, controcorrente. Esaltavano i valori della gente normale, che erano anche valori universali. Era il mio modo di gridare: ora parliamo della cultura della semplicità.”

Tradotta in spagnolo, “Felicidad”, è stata utilizzata per lo spot di un’automobile Skoda in Spagna e di un caffè in Cile. Vanta il maggior numero di parodie, da Jerry Calà nel film “Bomber” (“Felicità è mangiare un panino con dentro un bambino, la felicità”) a Neri Marcorè e Luca Barbarossa che al Concerto del Primo Maggio 2011 diventano “Alfano e Romina”: “Immunità, è votare una legge che ti protegge, immunità, ti cancella un reato con un decreto, immunità (…) l’evasione fiscale diventa legale con l’immunità”.

Popolarissima in Russia, è oggi, con il titolo “Με μια σου ματιά”, in classifica in Grecia nella versione di Yiannis Ploutarxos in coppia con Al Bano.


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sabato 13 dicembre 2014

Mango, il canto e il disincanto


Nel 1985, quando la Basilicata ancora non esisteva, un cantante lucano e per giunta del paese confinante con il mio, apparve sul palco del Festival di Sanremo. All’epoca, l’unica della famiglia che difendeva la visione rituale del festival, quasi fosse una ragion di Stato, con tanto di pronostici, analisi sociologiche e la scelta del 45 giri da comprare all’indomani, era mia nonna Amina.
Ricordo perfettamente quel senso di ansia da prestazione che provai io per Mango, sulla cui esibizione avevo riposto tutte le mie aspettative, per ardori squisitamente campanilistici, ovviamente.
Capello post punk, look new wave e una voce così poco convenzionale che pensai che nonna non l'avrebbe capito e che la nostra gloria locale avesse sprecato la sua grande occasione. Ecco la parola magica di questa piccola riflessione.

Leggevo in questi giorni parole di disapprovazione nei post di alcuni social-amici nei confronti della stampa e dei media in generale pronti a versare lacrime di coccodrillo (non a caso così si chiama il necrologio in gergo giornalistico) per la scomparsa di Mango. Non sono molto d'accordo. Se spesso corrisponde al vero la freddura di Jean Cocteau per cui “bisogna essere un uomo vivo e un artista postumo”, non è certo questo il caso. Pino Mango ha avuto una dorata e lunga carriera, a ventidue anni aveva già inciso il primo LP con la RCA e poi due album, con la Numero Uno e con la Fonit Cetra, prima di debuttare nella categoria “Giovani” a Sanremo. Sette le occasioni nella kermesse festivaliera, l'ultima nel 2007, e le sue canzoni più note, a parte “Lei verrà”, non sono di certo quelle presentate su quel palco.
Questo per dire che Mango fa parte di quella generazione nata nella culla della discografia, anni in cui un debuttante poteva fare quattro Sanremo giovani consecutivi per vincerne uno, come pure è accaduto. Oggi dicono che sarebbe impensabile. Tutto brucia rapidamente, una sola carta se sei fortunato e da giocare pure in fretta.
Mango nel suo background musicale aveva sedimentato tutto il pop-rock più raffinato, dagli Steely Dan e i Blue Nile a Cat Stevens, David Bowie e Peter Gabriel, e la sua voce, il suo modo di cantare, altro non erano che la trasposizione della tradizione orale contadina in ambito pop. Non lo capivo a 10 anni mentre ascoltando “Lei verrà” non sapevo come classificarla, l'ho capito pochissimo tempo fa, quando ho sentito Mango cantare in dialetto.
Amici vi rassicuro, Pino Mango non era affatto un dimenticato o abbandonato, sono davvero altri gli artisti che hanno avuto o rischiano questo ingiusto destino. Ho puntualmente intervistato Mango in appuntamenti organizzati dalle sue major discografiche per l'uscita di dischi o libri, l'ho incontrato l'ultima volta a giugno a Musicultura, nello splendido scenario (come si dice per le grandi occasioni) dello Sferisterio di Macerata. Ho scartabellato un po' tra i miei file per il puro piacere di rileggere le sue risposte, estraggo due brevi interviste e una foto anni '80 che lo ritrae sulla Fondovalle del Noce, strada statale 585, quella che si vede alla sue spalle è casa mia...



Intervista del 2002 – per la pubblicazione del cd “Disincanto”

Un modo di cantare originale e unico nei suoi “falsetti”, anche se lui non li chiama tali perché “sorgono naturalmente senza falsare la voce”. Dopo cinque anni di assenza Mango ritorna con un nuovo disco, proponendo le sue tipiche atmosfere eteree e sognanti in “Disincanto”, album che lo vede impegnato per la prima volta anche come autore dei testi.
Privilegia, a ragione, la sezione degli archi e la affida ai maestri Petruzzi e Buonvino, mentre la beatlesmania contagia anche lui in un’esecuzione a più voci di “Michelle”.

Pino Mango autore dei testi. Vuol dire un distacco da suo fratello Armando o da altri suoi collaboratori storici?

Naturalmente no. Forse ho solo realizzato un sogno che covavo da tempo, o il risultato di una maturità individuale. Armando è molto impegnato in altre produzioni. Avevo a disposizione persino testi di Mogol e di Tiziano Ferro e non li ho utilizzati, anche se nel disco li ho citati tra i ringraziamenti.

Qual è stata la vera ispirazione?

Ho avuto un po’ più di tempo per guardarmi intorno e sentire il bisogno di un disco con dodici espressioni importanti. In quello che ascolto sento un po’ di noia. Spesso i cd sono pieni di riempitivi o di sperimentazioni sterili. E’ difficile trovare un disco bello dalla prima all’ultima canzone. Finora l’unico che c’è riuscito è stato Battisti con “Il mio canto libero”.

Ritorna la metafora del volo e del viaggio nei suoi brani.

Forse perché provenendo da Lagonegro, un piccolo centro della Lucania, mi è rimasta ancora quella voglia di uscire al di fuori, la tensione a spiccare il volo che nutrivo fin da bambino.

Lo scenario e il background dei suoi pezzi è da rintracciare ancora nel Mediterraneo?

Privilegio certe sonorità dette “mediterranee”. Ma non nel senso di etnico, una parola abusata. Anche “Oro” aveva delle sonorità etniche, ma sono passati diciotto anni. Se per “suoni mediterranei” intendiamo world music, sono d’accordo. Ma questo mi avvicina molto di più a Peter Gabriel, che però è inglese.

Lei ha scritto per molte interpreti come Patty Pravo, la Bertè ed altre. Come procede questa sua attività?
Mi arrivano proposte in continuazione. Mi piacerebbe lavorare con tutti, ma sono troppo legato al mio mondo. Sono un po’ contrario a certi meccanismi su commissione. Io scrivo quello che sento, non scrivo per chi canta. Se poi quella situazione calza sul carattere di un interprete, allora la canzone diventa sua. Ma è difficile fare delle produzioni come le intendo io. O ti innamori e ti entusiasmi su un progetto o non se ne fa nulla. Non basta realizzare il pezzo in sé; ho bisogno di seguire tutto il processo della lavorazione. Cosa non facile, perché ogni artista generalmente si affida  al proprio entourage.


Intervista del 2004 – per l'uscita del libro di poesie “Nel malamente mondo non ti trovo” e del cd “Ti porto in Africa”

'La voglia di poesia era nell'aria', ha detto Mango usando un'espressione che innegabilmente gli si addice. Da sempre attento alle sonorità e alle melodie del Mediterraneo ('bacino che offre un mondo sonoro shakerato'), il cantautore lucano nel libro 'Nel malamente mondo non ti trovo' tratteggia paesaggi, penombre, antichi sogni, tra frasche di menta e logge infuocate dal sole, mentre “il piede dà il tempo a un tranquillo lamento”. Del suo primo volume di poesie e dell'ansia di tirar fuori la sua musicalità ariosa, Mango parla volentieri nei sempre più frequenti incontri nei campus, nei teatri o nella stiva di una libreria.

Un disco fortunato, un libro, un tour. A quando l'esordio cinematografico o il musical?


Come attore mi sentirei ridicolo, in imbarazzo. Non credo che ci sarà questo tipo di debutto. Certo, il mondo delle immagini ha un suo fascino irresistibile. Ho curato personalmente il montaggio del mio video, valutando gli storyboard e la lavorazione passo dopo passo. Questo perché più si va avanti e più si ha bisogno di sfumature che gli altri non ti possono dare. L'arte è un'esperienza globale, non un fatto casuale. Non si finisce mai, in questo lavoro come in tutti gli altri. Basta guardare all'esperienza degli artigiani di un tempo, come mio padre. Papà faceva il muratore e la casa in cui vivo a Lagonegro, l'ha costruita lui, mattone dopo mattone; ha fatto le porte, ha fatto le finestre. L'arte è la voglia di appropriarsi di qualcosa di se stessi che non abbiamo ancora esplorato.

Quando ha scoperto la sua passione per la poesia?


Ho cominciato a scrivere due anni fa. E' da poco, quindi, che ho scoperto la poesia come scrittura, come liberazione dell'anima quando chiede aiuto. La poesia è una danza infinita, è qualcosa che parte dai poeti che ti hanno folgorato, ma anche da noiose letture giovanili, e si scompone in mille mosaici attuali.

Mogol, Panella e Lucio Dalla, sfumature diverse per i suoi testi...

Ogni canzone ha soltanto un testo. Tocca poi all'autore tirare fuori ciò che la melodia ha già dentro. Mogol e Panella si sono ritrovati a dover rispettare una ricerca già fatta da me in precedenza sui suoni. Quando ho scritto “Forse che si , forse che no” ho sentito, nella scansione del pezzo, qualcosa che apparteneva a Lucio, uno dei primi a fare una canzone basata su una sola nota e senza melodia. Straordinario.

Cos'è per lei il successo?

Dopo i primi tre dischi, mi ero iscritto all'Università per studiare sociologia. Poi ho scritto “Oro” e la mia vita è cambiata radicalmente. Ho cominciato a vestirmi e a truccarmi in un certo modo e la gente ha cominciato ad accorgersi di me. Il successo è arrivato grazie a Giulio Rapetti che un giorno ha detto: “questo è un fior di musicista”. Le mie canzoni appassionano, lo vedo dai contatti sul mio sito, attraverso il quale dialogo con gente profonda, colta e sensibile: Baglioni, tanto perché siamo a Roma, non ce l'ha un pubblico come il mio.



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giovedì 20 novembre 2014

Cercavi giustizia, ma trovasti la legge...

Michelino, Silvestro e Brioche: un racconto che non cade in prescrizione



Pareti, lastre piane, coperture ondulate, rivestimento tetti, pannelli, pannelli isolanti, ceramiche, supporto piastrelle, pavimentazione tubi, isolamento termico, caldaie, cemento per manto di copertura, cemento per forni, intonaci e stucchi, pitture, vernici, asbesto spray per isolamento acustico, isolamento termico per pareti, pavimenti, materassi, guaine materiale elettrico, condotte per fognature, strato di fondo carrozzerie autoveicoli, tessuti, nastri, guarnizioni di freni, dischi frizione, filtri per maschere antigas, guarnizioni ad anello, tubi, stoppini, funi, spago, filo da cucire, rivestimento conduttori elettrici, rivestimento di cavi, materassi, indumenti, guanti, grembiali, drappeggi tappezzerie, coperture, sacchi postali, tende, tappeti, sipari teatrali, scenari teatrali e rivestimenti pavimento in teatri, trattamenti acustici, filtri, rivestimenti, imbottiture, attrezzature mediche, protezioni antifiamma, sacchi di sabbia, nastri trasportatori, accessori per velivoli, tovaglie per tavoli da stiro, imbottiture pianoforti, avvolgimento bobine, coibentazioni per tetti, guarnizioni, stoppini, tubi, rivestimenti stufe, condotti di scarico per automobili, teglie per forni, imbottiture e stuoie da tavola, condutture d'aria, caloriferi, casseforti, cabine di proiezione cinematografica, macchine lavaggio a secco, inceneritori rifiuti, forni, pareti tagliafiamma, soffittature, guarnizioni, porte antifiamma, stuoie da tavola, tubi per condutture acqua, fognature, condutture gas, portalampade, parti di commutatori, montature resistenti ed altri usi per materiale elettrico come isolamenti sotterranei e pavimenti, vari impieghi in materie plastiche… 


Le famigerate onduline di eternit sono solo un aspetto del problema: l’amianto è stato utilizzato soprattutto negli anni ’50 e ’60 nella realizzazione di oltre 3000 prodotti industriali.

Arriva nel 1992 la legge 257 che, con un ritardo criminale, ha messo al bando la fibra killer (vietandone l’estrazione, l’uso e la commercializzazione) e ha tentato di imporre la bonifica di ogni luogo in cui fosse presente.

Sono passati altri anni e altre sentenze, ma tale risanamento è ben lungi dall’essere completato (nella migliore delle ipotesi) o avviato del tutto (nella maggior parte dei casi). 
Una fibra assassina capace di appostarsi nei polmoni e premeditare il suo agguato per 20, 30, 40 anni. Amianto, detto anche asbesto, il  “miglior termodispersore al mondo”… In sé non è pericoloso: lo diventa quando si usura e le piccolissime particelle di cui è composto si disperdono e vengono inalate. Allora vanno a concentrarsi nei bronchi, negli alveoli polmonari e nella pleura e provocano il mesotelioma pleurico, il tumore causato esclusivamente da inalazione di microfibre di amianto. Che dire poi del carcinoma laringeo e dell’asbestosi, il primo stadio della malattia che comporta gravi minorazioni cardiocircolatorie. 

La cronologia è prodiga di dettagli. Nel 1915 vengono messe in commercio le famose fioriere in Eternit, così è chiamata la fibra “eterna”, in un impeto futurista dall’austriaco che l’ha brevettata.
Nel 1928 inizia la produzione di tubi in fibrocemento, che fino agli anni '70 rappresenteranno lo standard nella costruzione di acquedotti. Nel 1933 fanno la loro comparsa le lastre ondulate, in seguito usate spesso per tetti e capannoni. Negli anni ‘40 e ‘50 l'eternit trova impiego in parecchi oggetti di uso quotidiano. Il più famoso è probabilmente la sedia da spiaggia di Willy Guhl. Sai che giovamento anche sotto il sole. E così via, fino a raggiungere i famigerati 3000 prodotti industriali. Realizzati non solo a Bari, ma anche alla Eternit di Casale Monferrato (la più grande d’Italia), di Cavagnolo, di Bagnoli e di Rubiera, alla Sacelit di San Filippo del Mela in Sicilia, a Senigallia, alla Italcementi di Trento, e nella vicina Molina di Ledro, alla Cemamit di Fermentino, i Nuovi Cantieri Apuani di Marina di Massa, a Monfalcone, a Reggio Emilia e alla Breda di Sesto San Giovanni, solo per citarne alcuni… 


Più volte, nel tempo, gli operai hanno protestato per la mancanza di respiratori, per lo spazio angusto e nocivo, per il rumore assordante. Solo costi aggiuntivi e una conseguente perdita di competitività, figuriamoci.  


Dei danni provocati dall'amianto si parla già nel 1898, ma l’allarme viene naturalmente ignorato. E’ solo intorno al 1960 che la comunità scientifica riconosce che il materiale può provocare il cancro. 
Nel 1911 partono i test sui topi. Nel 1917 le autorità inglesi si limitano a raccomandare di areare i locali. Nel 1932 i sindacati lanciano il primo serio allarme. 
Tra il 1955 e il 1960 vengono pubblicati gli studi di Doll, Sleggs e Wagner sulle connessioni tra cancro e amianto. Nel 1986 l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul cancro dichiara che tutti i tipi di amianto sono cancerogeni e, pertanto, non esistono soglie di sicurezza per chi vi si espone. Pensate che fino alla fine degli anni ’80, l’Italia è stata il secondo paese produttore di amianto in Europa, dopo l’Unione Sovietica. 


Giugno 2007: siamo a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, la città operaia delle grandi fabbriche come la Breda, la Marelli, la Falck. 

Il francese Pierre George nei suoi studi di geografia umana e sociale cita Sesto come esempio di "banlieue renversee (periferia rovesciata). Una periferia dove la gente non tornava a dormire ma veniva a lavorare. 42.000 operai stanchi e assonnati nel periodo più frenetico.

Michele Michelino
Il profilo di Lenin e il famoso primo piano del Che con sigaro, nella foto di Renè Burri del ’63, ci accolgono nel Centro di iniziativa proletaria “G. Tagarelli”. Dicono che siamo in provincia di Milano, ma è Milano, il suo cosiddetto hinterland, dalla stazione si arriva in tram. 

Giovambattista Tagarelli lavorava alla Breda, reparto aste leggere (aste trivellatrici per la ricerca del petrolio). Era l’unico reparto in Italia dove si utilizzava il metodo di saldatura detto “a scintillio”. 

La saldatrice arrivò dagli Stati Uniti già con una pessima fama. La macchina era coperta da un telo d’amianto per raffreddare i pezzi e al tempo stesso riparare l’operaio. In realtà il telo si surriscaldava e l’addetto lo respirava. 

Di 26 tute blu che hanno lavorato alle “aste” tra il 1973 e il 1989, 9 i sopravvissuti… Tagarelli è morto nel 1999. La Breda Fucine, fondata nel 1886 col nome E.Breda & C. chiude i battenti 2 anni prima, nel 1997.  


Raccogliamo le testimonianze degli ex operai che incontriamo: Michele Michelino, Silvestro Capelli, sua moglie Rosella Piazzoni, Daniela Trollio, Corrado Santomartino, Pasquale Giornaliero, Nicola Colucci e un ex della Marelli, Matteo Giordano. E’ una riserva operaia, il nucleo di una lunga battaglia iniziata con Tagarelli, con Franco Camporeale, Giuseppe Gobbo ed altri che non ci sono più. Hanno scritto un libro che racconta come loro siano riusciti «a portare sul banco degli imputati non solo i dirigenti di una fabbrica “di morte” ma un sistema economico che, in nome del profitto, calpesta, avvelena e uccide uomini e natura.» 
Qui il veleno si chiama amianto. Ma potrebbe chiamarsi arsenico, come a Manfredonia, diossina come a Seveso o CVM come a Porto Marghera. 

Prima di sederci a tavola, Michele Michelino, presidente del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio di Sesto San Giovanni, ci mostra un 45 giri autoprodotto con i canti incisi dal Coro degli operai della Breda. Sembra di stare in uno di quei Bar à Book spuntati come funghi a San Lorenzo a Roma, se non fosse per gli oggetti appartenuti alle vittime del lavoro, per le bacheche piene di rabbia e di orgoglio.

Michele Michelino dovrebbero brevettarlo, come ha fatto la Nintendo con l’idraulico Super Mario. E’ buffo, ma gli somiglia. Mette la prima salopette nel ‘69 a 16 anni per entrare alla Pirelli, reparto produzione cavi elettrici. Niente male come anno di battesimo. Poi in Breda, dal ’76 al ’97.
«Quando ho cominciato a lavorare – racconta Michele – gli operai erano 6.200.000. Oggi, malgrado la delocalizzazione, nonostante non ci siano più le grandi fabbriche, gli operai sono 6.450.000. Sembra incredibile, ma sono aumentati, sono 250.000 in più del ’69, ma sono divisi, sparpagliati. 

Ecco perché gli operai non hanno più la consapevolezza di esserci e credono a quello che dice che gli operai non esistono più.» 

Il pranzo scatena l’aneddotica e instilla il buonumore. Michele svela la famosa leggenda del “panino retribuito”. Ai tempi della cassa integrazione alla Breda, l’azienda andava avanti con 800 lavoratori fuori e 800 dentro. Poiché gli 800 “graziati” dovevano lavorare anche per gli 800 rifiutati, i cassintegrati organizzavano dei veri e propri picchetti gastronomici offrendo il panino a quelli di turno, una cooperativa organizzata col fondo cassa degli scioperanti. 


Poi Michele ci racconta di Brioche. Il suo nome è Giuseppe, un pugliese emigrato a Milano, come tanti. All’inizio viveva di espedienti, si aggirava sempre dalle parti della fabbrica. Finché un giorno si apposta vicino al bar della Breda, quello che apriva alle 5 del mattino, appena in tempo per il primo turno in fabbrica. Gli operai arrivavano da tutta la provincia, un via vai di pullman da Brescia, Bergamo e da tutta la Brianza. Approfittando del bar ancora vuoto, Giuseppe entra e punta una pistola giocattolo contro il barista. 


«La cassa è vuota, non lo vedi che gli operai non sono ancora arrivati?» borbotta il proprietario del bar continuando ad asciugare i suoi bicchieri. «Allora dammi il cappuccino e tutte le briosches» risponde Giuseppe. Più che l’onor potè il digiuno, verrebbe da dire, ma un metronotte che passava davanti al bar vede la pistola poggiata sul bancone e chiama la polizia. Picchiato in questura, ma rilasciato. Il barista, naturalmente, non aveva sporto denuncia. 

Da allora Giuseppe diventa per sempre e per tutti Brioche. Anche perché dopo qualche mese, Michelino se lo ritrova in Breda, a lavorare nella sua squadra, nel suo stesso reparto. 

Tra gli “emigranti” anche molti lucani. Come Nicola Colucci che ci racconta del merlo comunista. Viveva in una trattoria sotto il ponte della Breda e dalla sua gabbietta ha partecipato alle manifestazioni, ha condiviso gli scioperi, ha mandato a memoria i canti di lotta che gli operai intonavano davanti ai cancelli. E’ stato il cantore solitario di 20 anni di vita di fabbrica. «Fischiava il motivo di Bandiera rossa che era uno spasso. Se poi era in vena, te la faceva tutta, dall’inizio alla fine». 


Quanto di più lontano dal canto forte e puro del merlo, è purtroppo la voce di un altro operaio, Silvestro Cappelli operato alla laringe per sradicare un cancro da amianto. Adesso parla attraverso un foro praticato nella trachea. E’ spesso il testimonial – se così si può dire – della lotta del Comitato. Ha portato la sua storia a teatro con Frankenstein, atto unico in forma di oratorio della Compagnia degli Stracci e del Gruppo Monbotan.

Silvestro Capelli
…Sapeva dell’esistenza di un sistema per saldare testa e croce sui tubi che servivano per la trivellazione. Questo ingegnere negli anni ’70 è andato in America e ha ricercato questa macchina che gli americani avevano già fermato quindici anni prima perché avevano scoperto che la macchina uccideva. Ha comprato la macchina, l’ha portata a Sesto San Giovanni per la Breda Fucine e l’ha messa in opera. Io non credo, non penso che gli americani non abbiano detto niente; sta di fatto che la macchina ha cominciato a funzionare. Durante questo processo c’erano le vibrazioni da radioattività, il calore che faceva spruzzare metallo fuso in modo tale che doveva essere fatta in un padiglione come un baule chiuso coperto di uno strato di tre centimetri di amianto che veniva micronizzato, polverizzato. Si facevano circa 240 saldature al giorno. Ogni volta che c’era una saldatura si apriva la macchina, con la pistola ad aria compressa si soffiava per fare pulizia dove si andavano a posizionare i pezzi per la saldatura successiva. Questa polvere di amianto polverizzato viaggiava per tutto lo stabilimento. Siccome non esistevano aspiratori per trattenere questa polvere noi operai fungevamo da aspiratori. (dall'intervista a Silvestro Capelli)

Tratto da "I diari del camioncino. Il viaggio dei Tetes de Bois nell'Italia del lavoro" a cura di Timisoara Pinto (ilmanifesto, 2008)

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sabato 4 ottobre 2014

Le Resistenze: Enzo Del Re


(Pubblicato sulla rivista del Club Tenco, "Il Cantautore")




Il musicista è l’operaio, il pubblico è il padrone. L’operaio deve resistere un minuto in più del padrone. Ecco il mondo del lavoro musicale secondo Enzo Del Re ed ecco perché i suoi concerti dovevano durare 8 ore, o comunque il tempo che ci voleva per svuotare la sala e costringere alla resa l’ultimo spettatore. Questa idea di resistenza applicata ha alimentato da subito un certo alone mitologico intorno alla figura di Enzo Del Re, “il corpofonista”, un artista difficile da accettare, ma anche da dimenticare. Una incontaminata unicità, un assoluto inalterabile che per Giovanna Marini “lo salva dall’angoscia che proviamo noi tutti nell’assistere al crollo di molti ideali e alla decadenza della civiltà”.

Enzo, “l’ultimo cantastorie di Mola di Bari”, viaggiava a piedi con due valigie cariche di giornali e non buttava via niente, “perché la carta e la scrittura sono sacre”. “Mi ha sempre fatto pensare a Woody Guthrie, - mi ha detto Sandro Portelli –, non tanto per riferimenti diretti o somiglianze quanto per l’irriducibilità di entrambi agli schemi non solo della cultura dominante, ma anche della cultura alternativa”.
Resistente nella sua ostinazione e nella coerenza estrema, fino al suo ultimo concerto per grandine e cofani d’automobile, quando una tempesta inaudita ha accompagnato l’uscita del suo feretro dalla chiesa il giorno del suo funerale e, sempre contro la sua volontà, un tragitto in macchina e non a spalla lo ha condotto al camposanto. A sessantasette anni, solo il suo corpo non ha resistito, logorato da turni e ritmi serrati di emodialisi. Era il 6 giugno 2011, quando la sua sedia ha accolto il suo ultimo respiro. Pochi mesi prima, già molto indebolito, aveva finalmente sfidato il tempio della canzone d’autore, il Club Tenco. In quell’occasione, proprio in omaggio alla sua memorabile resistenza, annunciammo insieme l’uscita della sua biografia e proprio qui, a Sanremo, la presento, per la prima volta.


E’ resistenza la rivolta della gatta nera che sanguina per le ingiurie e l’ignoranza della gente che la scaccia a bastonate urlando “Scitt’rà”; è resistenza la rivolta contadina che nella canzone “Le pietre” progetta la più spontanea delle rivoluzioni: “non si deve legare più il ciuccio dove vuole il padrone”. E’ resistenza il viaggio della speranza di “Povera gente”, il dramma dell’emigrazione, “quando la cantava – ricorda Marco Chiavistrelli – il suo sguardo da dolce ed empatico diveniva vitreo, architettonico, di un popolo intero, da ruscello diveniva fiume che chiedeva il rivoltamento della storia.”


E’ resistenza il suo vivere e cantare “sempre fuori dal motore”, resistente il navigante con la bocca amara e il cuore nero che versa lacrime per il “bene suo” (la donna che lo attende a casa) cantando con “la schiuma alla bocca”, ma nessuno lo sente...

Era fiero, col suo "scazzettino" rosso in testa, quando mi parlava del carattere duro e testardo della sua gente, donne in prima linea. Persino alla resistenza molese contro Turchi e corsari aveva dedicato parole e schiocchi di lingua: "Le molesi capatosta": Fu verso la fine del 1500/ da mare arrivò l'equipaggio aggressore turco violento…/ Ogni molese lottò da valoroso si comportò, però le donne della resistenza/ furono l'anima, l'essenza./ Giovani e vecchie, maritate e zitelle, bionde e brune, grasse e magre, alte e basse/ Catarinella, Florina, Rosinella,/ Veronichella, Olimpiolla e Zenzella/ Donatella, Cecchella, Nenella, Porziella,/ quel giorno anche chi era racchia pareva bella."


(Il libro "Lavorare con lentezza. Enzo Del Re, il corpofonista" è disponibile sul sito dell'editore www.squilibri.it con il 30% di sconto)


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